Racconti terrificanti del passato: “u lepómene”. Forse non tutti sanno che …

Storie di “incontri ravvicinati” con esseri terrificanti nel pieno della notte tra i vicoli della città di una volta, più tenebrosa che mai

Notti senza tempo, tra le pietre che raccontano tante storie ma anche tante leggende. Molfetta, Centro Storico, via San Pietro. Ph. Marco Corrieri 

Per capire meglio l’immaginario collettivo di un’epoca oramai lontana da noi di parecchie generazioni, dobbiamo iniziare ad immaginare una città radicalmente diversa da quella di oggi; dobbiamo pensare ad un borgo completamente buio durante la notte, con vie strette e tortuose, praticamente deserte già dopo il tramonto, soprattutto in inverno, quando le persone dopo il tramonto del sole si rintanavano con gli animali domestici in case che spesso erano solo dei piccoli oscuri tuguri, illuminati quando serviva solo da qualche candela, senza finestre, senza acqua corrente e servizi igienici, dove in poco spazio dormiva tutta la numerosa famiglia; dobbiamo pensare ad un piccolo borgo cinto da alte mura con pochi varchi di accesso, le porte che si chiudevano al tramonto non consentendo a nessuno il transito fino all’alba del giorno dopo.

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Quella che oggi potremmo definire una ambientazione quasi perfetta di un romanzo gotico, un set ideale per le riprese di un film horror su vampiri o spettri, era in effetti lo scenario ideale per stimolare l’immaginazione popolare, per far nascere storie da raccontare, perlopiù terrificanti che suggestionavano non poco chi le ascoltava. L’immaginario collettivo di quei tempi, in un contesto del genere, non aveva limiti come pure la credulità popolare.

Tante erano le storie raccontate che oggi potrebbero interessare i più temerari, stupire i curiosi, affascinare al limite anche qualche sceneggiatore; che in passato stimolavano la fantasia popolare e tenevano alta la tensione, incuriosendo e affascinando persone di tutte le età; terrificanti racconti di “incontri ravvicinati” nel pieno della notte con esseri surreali. La città, quella di allora, considerando anche il suo agro pressoché incontaminato, con le sue torri e masserie fortificate, non era solo la terra delle “mesciàre” (le megere o fattucchiere), tormentata dai “mòneceidde” (spiritelli notturni dispettosi e burloni) o “melòbre” (spettri maligni). Molte erano le storie che vedevano come protagonista un essere diabolico ancora più terrificante: “u lepómene”. Forse non tutti sanno che il licantropo (dal greco “lýkos”, “lupo” e ànthropos, “uomo”) è anche detto lupo mannaro, probabilmente come derivazione dalla parola dell’antico dialetto molfettese, “lepómene” al quale poi si sarebbe aggiunto il suffisso (re) come possiamo notare nella parola in dialetto abruzzese (lepó-menere).

A Molfetta forse è ancora possibile ascoltare antiche storie, narrate da arzilli vecchietti, sul “lepómene”, il licantropo in salsa molfettese, l’uomo capace di trasformarsi, nelle notti di luna piena, in uomo lupo e il cui morso trasformava anche la vittima in una creatura simile; forse è possibile ancora ascoltare storie sul famoso uomo lupo molfettese, storie di “incontri ravvicinati” e terrificanti che spesso avvenivano di notte, sempre secondo questi racconti, tra i vicoli di una città più tenebrosa che mai e meno estesa di quella di oggi.

Molti erano i racconti di incontri terrificanti con il licantropo, durante le notti di luna piena, tra le ombre spettrali proiettate dai vecchi palazzi illuminati solo dalla luce lunare. I vecchi narravano spesso storie incentrate sul lepómene, una bestia dalla forma semi umana, di grande statura, agilissima e fortissima, la cui ira poteva essere mortale per i poveri sprovveduti obbligati durante quelle notti a lasciare il focolare domestico per necessità. I racconti popolari si arricchivano continuamente di esperienze personali che molti credevano di aver vissuto. Storie frutto in realtà di autosuggestione quando non erano del tutto inventate.

Non è ancora tutto, però. C’era dell’altro ad alimentare ulteriormente queste incredibili storie. In tempi in cui si andava a dormire con le galline e ci si svegliava al canto del gallo, il popolo si allarmava di fronte a un’immotivata insonnia. Quello che oggi sappiamo essere un mero problema patologico, svincolato da altri malesseri, l’insonnia, in pratica, non rientrava affatto nei canoni della normalità in passato.

Per un permanere di concezioni medievali del popolino, l’insonnia non veniva ritenuta infermità a insorgenza spontanea, bensì frutto di orditure esoteriche, o si influssi diabolici, per cui si arrivava alla conclusione che il poveretto di turno, l’insonne, era certamente vittima di un sortilegio d’amore degenerato in fissazione o, peggio ancora, di una fattura malevola commissionata alla “mesciàrë di turno, il cui scopo fosse proprio quello di procurargli uno squilibrio psichico. Se poi il disturbo aveva manifestazione ciclica, ogni volta coincidendo con la fase di luna piena, e alla difficoltà di prendere sonno, si aggiungeva l’insofferenza a rimanere a letto, nonché la forte voglia di uscire e camminare nel pieno della notte tra i vicoli della città, al dubbio di un possibile sortilegio, ne subentrava un altro, non meno sconvolgente: lunazione dietro lunazione, il poveretto poteva diventare per la gente un lupo mannaro. Un’ipotesi capace di seminare lo sgomento non solo in famiglia, ma anche fra gli abitanti del quartiere. Dopo di che il malcapitato si beccava l’atroce qualifica di lepómene.

La licantropia, quindi, non era solo una semplice credenza da relegare nell’ambito dell’immaginario popolare. Era spesso la spiegazione di una patologia attraverso la mitologia. Ecco, appunto, proprio quella sui licantropi, in Puglia, aveva radici ben profonde. Si racconta, infatti, che il prolifico Re di Arcadia Licaone, padre di ben cinquanta figli, fra cui Peucezio che avrebbe dato il nome alla Terra di Bari: la Peucezia, sarebbe stato trasformato in lupo dopo aver officiato un rito alquanto cruento. Il sovrano, infatti, avrebbe sacrificato al padre degli dei, Zeus, uno dei suoi figli e, per tale atto empio, successivamente trasformato in lupo dallo stesso dio. Sembra che la doppia natura, quella di uomo e di lupo, di Licaone si fosse manifestata per la prima volta proprio in Puglia.

Nel Medioevo la licantropia, che oggi appartiene alla categoria delle malattie psicopatologiche, assunse delle connotazioni ancora più macabre e sinistre, perché ritenuta opera di spiriti maligni. I nati fra il 24 ed il 25 dicembre erano considerati portatori della doppia natura, perché nella concezione dell’epoca era intollerabile che altre creature nascessero nello stesso giorno di Gesù. Tuttavia si trattava di un problema puramente maschile, per una volta tanto, infatti, le donne non venivano contaminate dal sangue lupesco.

In merito al rimedio da utilizzare per eliminare la natura bestiale, ne esistevano diversi e si trattava di una sorta di forma di esorcismo. In alcune zone della regione, per tre notti di seguito, il genitore doveva sfiorare i piedi del bambino con un tizzone ardente, facendo con questo il segno della croce. Una variante sul tema consisteva nell’inserire temporaneamente il bambino in un forno acceso, in modo che la luce ed il calore lo irradiassero. Per i Licantropi ormai cresciuti, quelli i cui genitori avevano dimenticato o sottovalutato i precedenti riti, era possibile guarirli ferendoli alla fronte durante la crisi, in modo da far uscire via gli spiriti maligni insieme al sangue infettato.

In tempi abbastanza recenti, molto più semplicemente si sosteneva pure che i realtà, i lepómene, fossero persone malate di asma, malattia poco curabile in passato, che in preda alle crisi asmatiche, uscivano in strada in piena notte, per respirare meglio, lamentandosi, cosa che attirava l’attenzione dei cani randagi. L’etichetta che veniva affibbiata a queste persone sofferenti era, però, sempre la stessa: “lepómene”.

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