“Un fattore inquietante” nella Santa Famiglia di Antonio de Bellis

“La Santa Famiglia” di Antonio de Bellis “contribuisce allo scioglimento di uno dei nodi più ingarbugliati della pittura napoletana del Seicento”

“Santa Famiglia” di recente attribuita ad Antonio de Bellis (XVII sec)

La preziosa tela secentesca della Santa Famiglia, collocata nella pinacoteca antica del Museo diocesano, ha stimolato dapprima la curiosità del prof. Francesco Saracino e poi una saggia intuizione che ha generato la successiva ricerca e, infine, l’attribuzione ad Antonio de Bellis (1610-1656), innovativo pittore operante a Napoli verso la metà del Seicento, al centro di un vivace dibattito storico-artistico, le cui opere sono custodite in prestigiosi musei europei.

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L’opera molfettese, è stata oggetto di un accurata ricerca di Saracino che, attraverso uno studio comparato con altre opere dello stesso pittore e di altri artisti la riconduce agli anni 40 del XVII secolo. L’analisi iconografica e iconologica dell’opera, presentata in una inedita pubblicazione dal titolo “Infanzia e Destino. Una Santa Famiglia di Antonio de Bellis”, aiuta a cogliere aspetti storici, artistici e teologici necessari alla lettura dell’opera.

“Giuseppe mostra alla sposa il Figlio; la Vergine ha distolto lo sguardo dal Bambino e volge gli occhi in alto; nessuno dei tre protagonisti ricambia la vista degli altri e nessuno guarda l’osservatore. Questa circolazione asimmetrica è un fattore inquietante di questa tela“.

In questo video, pubblicato nella playlist Coltivate la bellezza, della pagina Facebook del Museo Diocesano di Molfetta, è spiegato perché. Coltivate la bellezza è un invito, tratto dai discorsi di don Tonino Bello, che il Museo Diocesano Molfetta porge in questo tempo di particolare difficoltà a fruire del bello. Percorsi di fruizione digitale che consentono di varcare le porte di uno dei tanti musei italiani chiusi, ma non per questo impossibilitati a mostrare il proprio patrimonio con le stupende storie di fede e di arte che li accompagna.

“Santa Famiglia” di recente attribuita ad Antonio de Bellis (XVII sec). Particolare della Madonna

Antonio De Bellis è un altro degli allievi di Massimo Stanzione, uno dei più importanti pittori della scuola napoletana del Seicento, soprannominato il “Guido Reni napoletano”. Bernardo De Dominici, o de’ Dominici, pittore, storico dell’arte e biografo italiano di epoca tardo-barocca, attivo principalmente a Napoli, fa morire il De Bellis nel 1656, mentre a Napoli divampa la peste. Il rinvenimento di alcune sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivi alla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la certezza che l’artista aveva continuato a lavorare anche dopo la peste. Figura fino a trenta anni fa quasi sconosciuta alla critica e della quale non possediamo alcun dato biografico certo, essendosi dimostrato mendace il referto dedominiciano della data di morte, il De Bellis si staglia prepotentemente tra i più alti pittori del Seicento non solo napoletano ma italiano. Un altro dei grandi del nuovo naturalismo napoletano, che medita ed opera, inizialmente, tra il Maestro degli annunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed il Cavallino pittoricista. Intuizione già felicemente avanzata dal Causa nella sua brillante e precorritrice esegesi del 1972 sull’allora ignoto pittore e sulla base dell’unica opera che gli veniva assegnata, il ciclo carolino nella chiesa napoletana di San Carlo alle Mortelle, che si riteneva eseguita in coincidenza con l’infuriare della peste.

Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitanti nell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panorama della pittura napoletana di questi anni per poter assurgere ad una posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla luce delle recenti scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve almeno parlare di un minore di lusso. De Dominici ci narra che egli elaborò il suo stile miscelando «il dolce colorito» del suo maestro Stanzione alla «nuova terribile maniera» del Guercino, la cui Resurrezione di Lazzaro oggi al Louvre, si trovava allora nella collezione Garofalo a Napoli. Essa fu copiata dal De Bellis e collocata nella chiesa della Pietà dei Turchini, dove attualmente non è più presente. In nessuna delle opere che oggi la critica assegna all’artista sono visibili riflessi dello stile del grande bolognese, per cui l’affermazione del biografo settecentesco non ci è di alcuna utilità.  Nello stile del De Bellis vi è negli anni «un processo costante di assestamento compositivo e di più studiata definizione dei volumi, un accrescimento in senso pittoricistico delle originarie propensioni naturalistiche con un intenerimento del dato espressivo anche per sottigliezza di resa formale» (Spinosa). Le stringenti affinità che intercorrono nella scelta delle soluzioni compositive e nella tipologia dei personaggi raffigurati, e le notevoli analogie con la Natività firmata Bartolomeo Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a questo autore una grossa parte della produzione del De Bellis.

L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto Lot e le figlie, oggi a Milano presso la Compagnia di Belle Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare definitivamente al nostro artista tutto quel gruppo di opere che il Prohaska riteneva di Bartolomeo Bassante. Il Causa, nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana del Seicento, annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bonaventura. Negli ultimi anni della sua attività, il De Bellis, per soddisfare le esigenze di una committenza pubblica legata a soluzioni convenzionali di pittura religiosa di carattere devozionale, dovette variare nuovamente il suo stile.

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