Frammenti di ricordi: quando intorno alla “frascer” si riuniva tutta la famiglia

Storie di altri tempi. Atmosfere uniche ed indimenticabili di un’epoca arcaica, più povera, senza tutti quei confort che oggi consideriamo scontati, ma sicuramente più ricca di umanità. Tratto da un racconto di Angelo Boccanegra

La “frascer”

In passato, attorno al braciere (in vernacolo: “la frascer”), durante le lunghe e gelide serate invernali, i nostri anziani si raccoglievano per raccontarsi tante storie. Il braciere, infatti, in quei tempi andati, non era solo il metodo più pratico e semplice per riscaldarsi, per spandere un po’ di calore in casa, ma era anche un momento comunitario. Attorno a quel tepore, si riunivano intere famiglie, a volte anche amici e soprattutto “comari” (a quei tempi ne esistevano di svariato genere), per disquisire del più e del meno per ore e ore in tempi in cui non c’era praticamente nulla per sconfiggere il tempo che scorreva sempre molto lento fino all’ora in cui era necessario coricarsi.

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Il braciere, quindi, non era un semplice antenato del termosifone, era qualcosa di più: il luogo simbolo della casa dove, oltre a riscaldarsi, era d’uso scambiarsi quattro chiacchiere. E’  intorno ala braciere che affioravano vecchi ricordi magari sfogliando vecchie foto e raccontando storie di vita vissuta. Intorno ai bracieri di una volta si socializzava, a volte i bambini delle elementari imparavano a leggere sul libro di lettura e studiavano la lezione di storia e geografia su mitico “sussidiario”.

Nel braciere era spesso presente un pentolino che conteneva acqua sempre tiepida, grazie al caldo dei carboni che ardevano molto lentamente, pronta per qualsiasi uso, perché tutto era utile a quei tempi per risparmiare, nulla aveva un utilizzo unico. Oggi diremmo che il braciere era “multifunzione”. E infatti, grazie al braciere, ci si riscaldava, si chiacchierava, si bolliva un po’ d’acqua calda e si scaldavano anche un po’ di panni umidi stesi alla meno peggio intorno, per poterli asciugare meglio, soprattutto quando pioveva. E non è ancora tutto.

La nonna del Sud, in pochi ricordano questi momenti, ma chi li ricorda li condivide di sicuro.

Spesso nel braciere si abbrustoliva anche del pane più o meno raffermo che poi veniva gustato a mo’ di merenda, accompagnato a volte anche con un pomodoro appassito appena prelevato da qualche grappolo di “pomodori appesi” sui muri “dù scheveirtë” (l’atrio per chi abitava nei bassi) o della “passatéddë” (i pianerottoli dei vecchi palazzi a più piani). Quel pane tostato sul braciere acquistava un sapore rustico e una consistenza croccante. Pane al fumè, diremmo oggi.

Il braciere, solitamente, era “governato” dalla padrona di casa con una pala in ferro o ottone. L’arnese (in vernacolo: “u’ palettùddë”) serviva per girare i carboni, in un’atmosfera quasi surreale e senza tempo, con quell’inconfondibile odore nell’aria delle bucce di mandarino buttate alla bisogna sui carboni roventi tra una chiacchierata e l’altra.

Il sacco di carbonella (in vernacolo: “la carveneddë”) da ardere nel vecchio braciere durante le giornate fredde d’inverno, era un bene prezioso per le famiglie molfettesi di una volta e si faceva anche con le bucce delle mandorle essiccate sul finire dell’estate sui marciapiedi e sui tetti, dopo la raccolta. Quelli che non riuscivano a procurarsi la carbonella direttamente dalla propria campagna, si rivolgevano ai caratteristici carbonari ambulanti che giravano soprattutto in inverno per le vie del paese spingendo “u’ tràjainë, un carretto contenente sacchi di carbone e carbonella da vendere a peso.

Bei ricordi delle atmosfere famigliari di una volta, della vita a volte dura, ma semplice ed armoniosa del bel tempo andato.

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