Ricordi dei ‘saloni’ da barba e dei barbieri d’una volta

Andare dal barbiere in passato, significava entrare in una realtà che ti metteva in comunicazione col mondo. Negli storici ‘saloni’ di Molfetta si andava oltre che per il taglio della barba e dei capelli, anche per chiacchierare e apprendere nuove notizie

“In ricordo del mio Papà, “M’zechicchie”, un maestro di altri tempi, quando la sfumatura si faceva a forbice e non con la macchinetta”. Foto di Mimmo Modugno

Il gossip non è prerogativa dei tempi moderni, tutt’altro. Semmai è cambiato il modo di farlo. Il barbiere, nella Molfetta della prima metà del Novecento, tanto per non andare troppo indietro nel tempo, col suo cosiddetto “Salone”, rappresentava nel paese il “giornale parlante” per tutti coloro che lo frequentavano, poiché fra essi, nell’attesa di essere serviti, vi era sempre chi teneva banco e ne sapeva più dell’altro, manifestandosi come colui che era portatore con orgoglio della notizia in esclusiva, di prima mano, pronto a darla gratis naturalmente.

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Insomma, andare dal barbiere, non di lunedì che era il suo tradizionale giorno di riposo, significava entrare in una realtà che ti metteva in comunicazione col mondo, ricevendo la sensazione di essere proiettato su fatti ed aneddoti esposti con la chiacchiera congeniale al dicitore, su inciuci di carattere locale, prerogativa marcata di chi era a conoscenza di episodi correnti della vita privata altrui, del vicino di casa o dell’amico di cui si sapeva vita e miracoli.

Dal barbiere, fino a quando Molfetta ne contava in notevole numero, accadeva tutto questo, ed è continuato fin quasi ai primi anni ’80, allorquando incominciò a delinearsi il progressivo declino della categoria con la chiusura o il passaggio del testimone della propria attività ad altri, per pensionamento del titolare e per sensibile diminuzione della clientela. A Molfetta, in vernacolo, il mestiere aveva due declinazioni: “varviere” o “scorciaciucce”, termine quest’ultimo utilizzato per i meno bravi, spesso ingiustamente. Fino agli anni Settanta a Molfetta se ne contavano ancora parecchi, di vecchi saloni, rigorosamente per uomini, che erano luoghi di incontri, dibattiti (soprattutto calcio), discussioni e, bisogna dirlo, pettegolezzi.

Come non ricordare il loro camice di ordinanza, dotato di ampio taschino, che serviva a contenere forbice, pettine e spazzola e le schedine del totocalcio utilizzate per pulire il rasoio pieno di schiuma da barba. E l’indimenticabile sedia a “cavalluccio”, dove ci siamo passati quasi tutti, da bambini.

E poi c’erano i “ragazzi che dovevano imparare il mestiere”, che facevano solo la barba aiutandosi spesso con uno sgabello perché di piccola statura. “Ragazzo, spazzola!” era la parola d’ordine dei saloni di barba e capelli. E il ragazzo si prodigava nei migliori dei modi nella speranza di favorire l’eventuale mancia.

I ‘saloni’ da barba, in passato, nell’assenza assoluta di ogni prospettiva lavorativa, fungeva da scuola d’apprendistato più ‘nobile’. Nei ‘saloni’, infatti, gli imberbi ragazzi apprendevano qualcosa in più che nelle botteghe, sui cantieri edili o peggio ancora nei forni nostrani. La ‘sala da barba’ era ‘scuola di vita’, sinonimo di pulizia, eleganza, perfino di ‘cultura’ dove si discettava di tutto, specie di ‘arte’ musicale. In passato quando noi ragazzi vedevamo uno di noi con i capelli “fatti”, scattava la frase: “Ma cè si sciaute o scorcaciucce”.

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