Racconti e ricordi: “u’ trajàine”. I carri di una volta trainati da cavalli

Giravano per le vie della città di una volta. Erano l’unico mezzo di trasporto e locomozione per chi doveva recarsi nei campi, in altre città o in pellegrinaggio a San Michele. Da un racconto di Angelo Boccanegra. Foto di Sergio Patimo

Il carro (“u’ trajàine” in vernacolo), tipico veicolo dotato di due grandi ruote, trainato da cavalli o muli e adibito in passato al trasporto di merci o persone nell’agro come in paese. Molfetta, fine anni ’40 del secolo scorso. Foto inviata da Sergio Patimo

Continuo a parlarvi di Molfetta e del suo passato, di come eravamo. Per me questa rievocazione di ricordi, storie e consuetudini del passato, questa riscoperta della città di una volta, è una passione alla quale non riesco a rinunciare. Oggi mi va di parlare del mezzo di trasporto per eccellenza del passato: “u’ trajàine”.

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Il traino” era principalmente un carro da lavoro; era un indispensabile mezzo per il trasporto di merci, di prodotti della nostra agricoltura, ma anche di materiali da costruzione. L’utilizzo di questo carro, trainato da cavalli o da muli, ma non di rado anche da asini o buoi, era davvero variegato. Era utilizzato però, soprattutto dai coltivatori diretti, per portare i frutti della loro terra in città, ma anche per trasportare uomini e attrezzi agricoli nei campi. Il traino veniva utilizzato anche per i traslochi.

Per molto tempo “u’ trajàine” è stato il padrone assoluto del trasporto di merci e persone nelle nostre terre. All’occorrenza, però, era utilizzato per andare al mare, in estate, o in pellegrinaggio. Mitici erano i “viaggi organizzati” dalle famiglie, ognuna con il suo “carro famigliare” alla volta del Gargano, alla grotta di San Michele. Trainato da due cavalli, il traino era spesso addobbato a festa. Coperto, fungeva da ricovero notturno per donne e bambini. Gli uomini si arrangiavano come potevano, erano a quei tempi abituati a tutto, anche a dormire sotto le stelle o sotto i carri. Queste “gite” potevano durare anche parecchi giorni. I mezzi lenti rendevano più grandi le distanze. Senza dimenticare poi che le strade, non erano certo quelle di oggi.

Il traino era un’opera di alta ingegneria ed artigianato, opera dei mastri d’ascia che con legni pregiati delle Murge, realizzavano questo mezzo che permetteva in piena sicurezza di trasportare pesi importanti su ruote apparentemente fragili. Utilizzato anche per il trasporto di persone oltre che di cose, esso era di grande dimensione. Quello che però lo rendeva molto particolare era la grandezza delle ruote che erano rafforzate da un cerchione in ferro che le ricopriva.

Fino alla prima metà del secolo scorso ne circolavano tanti a Molfetta. Giravano per le vie della città e oltre alle grandi ruote avevano sponde laterali molto alte. Il conduttore del traino era lo stesso contadino, ma spesso era uno “trainiere” che faceva solo quel mestiere e si rendeva disponibile a ogni esigenza di trasporto. Molti sono stati i molfettesi che hanno svolto questo faticoso mestiere.

Come eravamo: quando si lavorava in cementificio. Molfetta, fine anni ’40 del secolo scorso. Foto inviata da Sergio Patimo

Il trainiere lo si incrociava spesso per le strade cittadine con il suo mezzo mentre cantava e ritmava le sue canzoni con una frusta, “u schresciàt”, che di tanto in tanto faceva schioccare con vera maestria. Quello schiocco si sentiva spesso e nitidamente in quei tempi non invasi ancora dal frastuono urbano che oggi subbiamo h24.

Una armonia innegabile legava “u’ trajàine” alle due figure indispensabili per farlo muovere: “u’ trajneìre” e “u’ cavadd”. Spesso, però, poteva essere un mulo a trainare il carro. “U’ trajneìre” di solito era baffuto con le punte dei baffi rivolte all’insù. Sempre sicuro di sé, con la sua coppola d’ordinanza e con lo sguardo serio, era sempre un grande lavoratore con il pensiero rivolto sempre al campo da arare, alle olive da raccogliere, alle mandorle e all’olio da trasportare anche in altre città. Aveva il totale controllo dell’animale che spesso stuzzicava, a volte insultava se non eseguiva alla lettera i suoi ordini, ma qualche volta pure vezzeggiava. Insomma, un rapporto di odio e amore tra l’animale e il suo padrone.

Peccato che lo scalpitare degli zoccoli sul selciato ormai si è perso nel vento del tempo trascorso. Sarebbe bello se si riuscisse a recuperare quelli che forse, in disarmo, si trovano ancora a Molfetta chiusi da qualche parte. Non riesco a convincermi che siano tutti scomparsi. Da qualche parte, io penso, forse ce n’è ancora qualcuno che aspetta il suo cavallo e il suo trainiere.

Ricordi, bei ricordi, di un tempo che fu, fatto di cose semplici, quando in città non si sentiva affatto la puzza di smog ma era facile invece incappare, se non si stava attenti, in qualche grossa cacca di cavallo.

 

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