Molfetta tra arte e storia: il grande Crocifisso dei Padri Cappuccini

Uno dei più belli e imponenti esistenti in Italia. L’opera dominante della Chiesa del SS. Crocifisso. Note storiche sulla presenza dei  frati Cappuccini a Molfetta. Foto di Maria Cappelluti

Molfetta, Grande Crocifisso dei Cappuccini, particolare del volto. L’espressione del viso è di forte realismo. Ph. Maria Cappelluti

La chiesa del Ss. Crocifisso o dei Padri Cappuccini situata in piazza Margherita di Savoia, fu eretta ad opera dei Padri Cappuccini, i quali dal 1540 si erano stabiliti presso il convento che sorgeva sul ciglio occidentale del Pulo. La sua costruzione fu ultimata nel 1572. 

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Il Cristo del grande crocifisso della Chiesa dei Cappuccini a Molfetta è ripreso frontalmente dall’artista nell’istante della morte. Ph. Maria Cappelluti
Particolare del grande Crocifisso in legno di scuola veneziana del XVI sec.. Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. Molfetta 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

L’opera dominante della chiesa è il grande Crocifisso di legno con lo sfondo della pala d’altare rappresentante il Calvario. Occupa tutta la parete di fondo del presbiterio, al di sopra dell’altare maggiore ed è di forte impatto visivo per i visitatori. Il Crocifisso in legno, forse di scuola veneziana, fu donato nel 1682 dal sacerdote don Francesco Antonio Cucumazzo (o Cucomazzo). Le dimensioni del Crocifisso sono davvero notevoli: il braccio verticale della croce misura m. 4,80, quello orizzontale m. 2,30. Il corpo del Cristo, alto m.1,82, è ripreso frontalmente nell’istante della morte; ha il capo reclinato sulla spalla destra; la bocca e gli occhi semi-chiusi. L’espressione del viso è di forte realismo, ma pur nello spasimo dell’intensa sofferenza, conserva una bellezza austera, di serena accettazione del dolore e di offerta di sé alla morte, nella consapevolezza del sacrificio compiuto per amore degli uomini. La maestosa figura del Cristo, pur umiliato sulla croce, è pervasa da tale regale dignità, da suscitare intensa emozione religiosa e profondo raccoglimento.

Note di Padre Leonardo Lotti, “La Chiesa dei Cappuccini in Molfetta“, collana storica “I Cappuccini nelle Puglie”, vol XII.

Il 15 gennaio 2005, la chiesa dei frati cappuccini, dal titolo “SS. Crocifisso”, è stata riaperta al pubblico. La chiesa, rimasta inagibile per quattro anni, è stata finalmente restituita al popolo e al servizio liturgico in tutta la sua bellezza. Ora si presenta luminosa e splendida per le preziose decorazioni barocche di cui è adorna, con le statue e i dipinti che la rivestono e la rendono come “una sposa pronta per il suo Signore”. Il volume, La Chiesa dei Cappuccini in Molfetta“, vuole essere una guida per il fedele cristiano e per chiunque desideri conoscere la storia dei frati cappuccini nella città di Molfetta. Presenza risalente al 1540, cioè agli inizi dell’Ordine Cappuccino, nato nelle Marche nel 1528 e diffusosi poi nel mondo. La chiesa del SS. Crocifisso in Molfetta è considerata la chiesa madre dei frati cappuccini della Puglia. Ogni opera d’arte in essa custodita è brevemente descritta e se ne presenta il valore storico-artistico, insieme al messaggio cristiano.

Presenza dei  frati Cappuccini a Molfetta, note storiche

Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. Molfetta 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Il primo convento

Essi giunsero in Puglia da Roma inviati dal p. Ludovico da Fossombrone, vicario generale, e nel 1533 fondarono il primo convento a Rugge, per opera di p. Tullio da Potenza, considerato il fondatore della Provincia di Puglia, detta anche di S. Girolamo. Questa fu tra le prime dodici fondate subito dopo il riconoscimento solenne della nuova famiglia francescana dei Cappuccini, sancito da Clemente VII il 3 luglio 1528 con la bolla Religionis zelus e comprendeva le circoscrizioni civili di Terra di Bari, Terra d’Otranto e Basilicata. Essendo molto difficoltoso governare un così vasto territorio, nel 1560 la Basilicata divenne provincia autonoma e le si assegnarono i cinque conventi esistenti nel suo territorio. Per le stesse ragioni, nel 1590, la rimanente Provincia di S. Girolamo fu divisa ulteriormente in due: quella di S. Maria di Leuca o di Lecce o di Otranto o Santa Maria in finibus terrae, che comprendeva 24 conventi, e quella di Bari o S. Nicolò, comprendente, nel tempo, i conventi di: Acquaviva (1589), Altamura (1563), Andria (1577), Bari (1566), Barletta (1554), Bitonto (1548), Conversano (1572), Gravina (1535), Lavello (1591), Modugno (1584), Molfetta (1540), Monopoli (1566), Montepeloso (1570), Noci (1592), Noicattaro o Noia (1589), Putignano (1573), Spinazzola (1570), Terlizzi (1582), Trani (1591), Venosa (1591), cui si aggiunsero quelli di Cisternino (1596), Corato (1594), Minervino (1583) e Palo (1594), nonché gli ospizi di Santeramo, Trinitapoli, Fasano, Locorotondo, Polignano, Bitritto, Alberobello, Toritto, Bitetto, Castellana e Capurso»

In appena 68 anni, dal 1533 al 1600, i Cappuccini fondarono in Puglia ben 58 conventi. Le prime dimore si devono all’opera instancabile di due predicatori: il già nominato fra Tullio da Potenza, ex conventuale, che fondò, oltre a quello di Rugge, dove morì nel 1542, anche i conventi di Potenza (1530?), Tricarico (s.d.), Taranto (1533 o 1539), Gravina (1535) e Mesagne 1539, e fra Giacomo da Molfetta che, passato dai Minori osservanti tra i Cappuccini subito dopo la riforma,  fondò  i conventi di Molfetta (1540), Galatina (1544), Grottaglie (1538), Laterza (1537), Bitonto (1548), Barletta (1554) e Martina Franca (1577). La ragione di una così rapida diffusione va ricercata nel modus vivendi dei primi Cappuccini: l’austerità della vita tutta permeata di silenzio, preghiera e lavoro, la penitenza continua, la sobrietà nel cibo e la povertà delle abitazioni, la predicazione popolare con stile caratterizzato da semplicità, concretezza e fervore mistico avevano creato attorno a loro un fascino particolare.

Scatto frontale dell’opera che per il visitatore è di forte impatto visivo. Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. Molfetta 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti
Molfetta, interno del Convento dei Frati Cappuccini. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Anche la popolazione di Molfetta, entusiasmata dalla predicazione e dall’esempio di padre Giacomo Paniscotti, chiese che si insediassero nella loro città. A Firenze, nell’Archivio Provinciale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini di Toscana si conserva, trascritta in due volumi, una Relazione dello stato di tutti i Conventi Cappuccini d’Italia compilata tra il 1703 e il 1716 da Filippo Bernardi da Firenze. Per quanto riguarda la fondazione del convento di Molfetta si legge: «La città di Molfetta fu una delle prime nella Puglia a mostrarsi ben affetta alla nostra riforma perocché, commossi i cittadini dalla predicazione e rare virtù del più volte nominato Padre Giacomo da Molfetta, fecero concordemente istanza a’ Cappuccini che volessero pigliare abitazione nel loro territorio. Accettato di buona voglia da’ nostri superiori l’invito e trovato a proposito certo sito lontano dalla città ben due miglia, quivi furono gettati i fondamenti con la debita licenza dell’Ordinario, che allora era monsignor Iacovo Ponzetti Fiorentino, nipote del cardinale Ferdinando Ponzetti, e ciò seguì l’anno 1540 alla presenza di gran moltitudine di popolo non ostante la distanza dalla Città. E questo fu il secondo convento che si pigliasse nella Provincia di Bari… ».

Come si legge in questo documento, quindi, il primo convento di Molfetta fu fondato nel 1540 da p. Giacomo da Molfetta, della nobile famiglia di Biancolino Paniscotti. La ricca famiglia di p. Giacomo contribuì generosamente con il proprio denaro e donò il terreno nella contrada posta a ponente del Pulo, che anche oggi è chiamata Biancolino Paniscotti.

Il luogo scelto era «lontano dalla città ben due miglia» perché ciò avrebbe favorito la vita eremitica. E questo era uno dei criteri che si tenevano presenti nella scelta dei luoghi per i nuovi insediamenti, così come si tenevano in considerazione anche la facilità di trovare mezzi per il sostentamento e la comodità negli spostamenti. Inoltre, poiché ai frati non era concesso per nessuna ragione di dormire fuori del convento, neppure presso parenti stretti, quando la distanza tra un convento e l’altro non poteva essere coperta nell’arco della giornata, si pensò, per evitare il problema del pernottamento, di erigere alcuni conventi di raccordo, dislocati in punti strategici, che servissero da ospizio per i frati in transito (per esempio il convento di S. Elia, fra Campi e Squinzano, fu costruito sulla collina perché di lì passava la via che dal convento leccese di Rugge portava a quello di Mesagne).

Molfetta, interno del Convento dei Frati Cappuccini. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti
Molfetta, interno del Convento dei Frati Cappuccini. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Sopra ogni cosa, però, si teneva conto dell’atteggiamento favorevole dell’episcopato verso i Cappuccini e del desiderio di molti di averli nelle rispettive diocesi. Fu su richiesta dei vescovi locali che si potettero aprire i conventi di Brindisi, Nardò, Bari e Grottaglie. Insieme ai vescovi, spesso partecipano attivamente alla fondazione dei conventi i Capitoli della cattedrale (come a Bari, Castellaneta, Putignano, Monopoli)  o della Collegiata (Manduria), singoli ecclesiastici, arcipreti, abati, canonici (come nel caso di Bitonto, Lecce e Palo): nel quadro generale del rinnovamento dell’Europa cristiana, che sarà rilanciato dal concilio tridentino (1545 – 1563), si sentiva il bisogno di immettere nel clero addetto alla cura religiosa dei fedeli uomini nuovi che rilanciassero un modo moderno di essere preti e costituissero uno stimolo pastorale sia per il clero secolare sia per quello regolare già presente nelle città. E i Cappuccini di recente istituzione erano effettivamente uomini nuovi e preti diversi, che conducevano una vita austera, quasi eremitica, predicavano con accenti appassionati, soffrivano tra gli uomini difendendo i deboli e gli oppressi, organizzando comitati contro ogni sopruso, specie contro l’usura, antico male dell’Italia meridionale.

Padre Giacomo da Molfetta, per esempio, fondò a Manduria (1532) e poi a Lecce il Monte di Pietà; e nella sua città non risparmiò interventi vigorosi contro gli usurai. E a questo proposito, voglio riferirvi un episodio singolare. Egli stava predicando nel 1553 a Molfetta contro gli usurai: uno di questi conosciuto pubblicamente per tale nella città, cominciò a deriderlo e quanto più il predicatore riprendeva aspramente le usure, tanto più fortemente egli rideva e lo sbeffeggiava. Padre Giacomo allora così gli disse: «Guardati, o tu, che pigli in burla le mie parole, che mentre giochi a scacchi, il demonio non ti faccia qualche brutto scherzo d’attorno»; passati alcuni giorni, mentre l’usuraio giocava a scacchi fu colto da morte improvvisa.

Molfetta, Chiesa del SS. Crocifisso. La bellissima vetrata della facciata fotografata dall’interno della chiesa. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Quasi sempre la fondazione di un convento fu resa possibile dall’intervento dei signori del luogo (nel caso di Gravina, Martina Franca, Conversano, Massafra, Corigliano d’Otranto, Noicattaro, Copertino), o dalla benevolenza e stima di persone facoltose particolarmente sensibili al risanamento delle piaghe sociali e morali della società  e di pubbliche autorità (Galatina, Francavilla, Andria, Ostuni, Otranto); ma non mancò mai il contributo generoso della popolazione. Alla fine del secolo XVI, come scrive p. Ferdinando Maggiore, avere un convento dei Cappuccini era diventato un voto comune, forse anche quasi una moda.

I primi “luoghi” che ospitarono i Cappuccini e che non potevano essere chiamati ne’ case ne’ conventi, dovevano essere, secondo le Costituzioni di Albacina (1528), di vimini e fango; le celle piccole come sepolcri; le chiese piccole e povere senza alcun ornamento: tutto esprimeva la radicalità di povertà evangelica, vissuta e insegnata da san Francesco.

Molfetta, interno del Convento dei Frati Cappuccini: pozzo e chiostro. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Il primo convento costruito al Pulo di Molfetta da p. Giacomo Paniscotti, fu realizzato conforme le prescrizioni di Albacina (1528), come si legge nella relazione di Filippo Bernardi: «La fabbrica fu fatta poverissimamente con haver più la mira alla povertà che alla comodità come fu sempre intenzione del nostro serafico patriarca…». Le dimensioni erano davvero ridotte: il corridoio del portico, a volta, che girava intorno al chiostro di m. 9,40 x 9,40, era largo solo m. 1,55 e alto circa m. 4; le finestre erano alte solo cm. 40 e larghe cm. 30; il refettorio era  largo m. 4, alto m. 4 e lungo m. 10; la chiesa larga m. 5,60, lunga m. 10, alta circa m. 6; il presbiterio era lungo m. 9 e  largo m. 3; nel centro era l’altare e dietro il coro; la volta a crociera e quella della navata a botte; tutto l’edificio era  in pietra.

I primi veri conventi si iniziarono a costruire solo dopo l’emanazione delle Costituzioni del 1535.

Nella costruzione dei conventi i frati dovevano scrupolosamente attenersi al modello definito dalle Costituzioni sia per la forma che per le misure. La primitiva forma era generalmente quadrata. Un lato era costituito dalla chiesa e gli altri tre lati dal convento, composto dal piano terra con i diversi locali di servizio, le così dette “officine”, rappresentate principalmente dal refettorio, cucina, dispensa, parlatoio, foresteria, sala della fraternità con camino, e dal piano superiore con celle e corridoi, che potevano essere tre o quattro, quando anche lungo le mura della chiesa vi era il portico, come per il 2° convento di Molfetta. Le celle, le cui misure restano sostanzialmente inalterate nelle diverse redazioni delle antiche Costituzioni, erano arredate dell’essenziale, un tavolino (solo per i predicatori), una croce e un pagliericcio con tavole, spesso senza lenzuola. Oltre le celle il piano superiore comprendeva la stanza deposito dei panni, dove un frate era incaricato di tenere «mondi et rappezzati per bisogni di poveri frati» i panni della comunità, l’infermeria, la biblioteca, che allora chiamavano “libraria”, che conservava i libri necessari all’apostolato, che dovevano essere a disposizione di tutta la comunità ed a nessuno, fatte le necessarie eccezioni, era consentito di avere libri ad uso personale. Il numero delle celle dipendeva dagli accordi stipulati con le autorità locali sulle proporzioni del convento in base alle esigenze delle popolazioni e alle necessità interne dell’Ordine. Come direttiva generale, all’inizio fu stabilito che ciascun convento doveva avere una fraternità composta da sei – dodici frati; nelle Costituzioni del 1608 verrà poi disposto che le fraternità dovevano essere formate da almeno dodici frati. Ma sempre ogni cosa doveva predicare umiltà, povertà e disprezzo del mondo.

E anche le  chiese dovevano essere «piccole, e povere: ma divote, honeste, e mondissime; ne’ vogliano haverle grandi per potervi predicare perché (come diceva il Padre nostro) miglior essempio si dà a predicare nelle chiese altrui, che nelle nostre, massime con offendere la Santa povertade». I Cappuccini ebbero particolare cura che questi canoni venissero rispettati ovunque. Nel 1570 il vicario provinciale, p. Andrea da Laterza, nel congedarsi dai fondatori dei conventi di Galatina e Nardò, così si espresse: «Tutto bene, miei Signori, però mi permetta la Vostra pietà, che io gli lasci un ricordo: procurate che l’edifizj non offendano la povertà altissima del nostro santo istituto; perché offendendosi cotesta, si offenderebbe la pupilla degli occhi del nostro Serafico Padre« ».

Molfetta, chiostro del Convento dei Cappuccini. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Il secondo convento

I Cappuccini di Molfetta rimasero nel convento del Pulo per circa 30 anni: la distanza dall’abitato rendeva difficile un’assistenza adeguata ai frati infermi e certamente non facilitava l’apostolato e l’esercizio della carità verso i poveri. Così pensarono di costruirne uno più vicino alla città e nel 1554 ottennero il permesso; il 18 aprile dello stesso anno l’Università di Molfetta designò dodici uomini per la scelta del luogo e l’acquisto del terreno. I frati erano ormai pienamente inseriti nella vita sociale di Molfetta, ne condividevano i problemi e le difficoltà del popolo, insomma erano diventati punto di riferimento per i devoti della città, sicché le offerte per la costruzione del secondo convento furono talmente tante, e tra queste particolarmente generosa fu quella della signora Monna Bisandella (o Bisantella?), che, con atto rogato dal notaio Germano nel 1577, donò 400 ducati, che non solo fu costruito il nuovo convento, ma vennero riparate anche, così come desiderato dal vescovo di Molfetta, Maiorano Maiorani, tutte le chiese e i conventi rovinati dal passaggio delle bande soldatesche quando nel 1529 Molfetta era stata saccheggiata dai francesi che avevano invaso il regno.

Nella relazione di Filippo Bernardi si legge: «… e quivi (nel convento del Pulo) abitarono i Frati lo spazio di 26 anni. In questo tempo la quotidiana sapienza fece conoscere e toccar con mano molti inconvenienti che sovente succedevano per il rispetto dell’eccedente lontananza dalla città. Il primo era che i poveri frati infermi di rado vedevano la faccia del medico et in secondo luogo accadeva che in tempo d’inverno, quando correva la stagione contraria, il cercatore o non potea tornare al convento o pur tornava troppo tardi a portarvi le limosine ritrovate. Per rimediare a questi et altri sconcerti fu giudicato necessario da’ nostri superiori e da’ medesimi cittadini che il convento si trasferisse altrove in sito più opportuno. Così l’anno 1565 si fabbricò dai fondamenti il Monastero, dove al presente abitano i frati, a spese della Comunità e d’alcune persone particolari, senza riserva di dominio. Resta situato un terzo di miglio fuori della città in strada pubblica, fabbricato secondo il nostro povero stile, con celle 24 ed altre consuete stanze ed officine e con la Chiesa sotto il titolo di Santa Croce.(…). Non ha debiti, né pesi di messe o di anniversari e non possiede rendite perpetue, né temporali, ma i frati, che in numero di 12 o talvolta più vi dimorano, vengono alimentati di caritative limosine somministrate dalla pietà de’ popoli di questa città».

Molfetta, chiostro del Convento dei Cappuccini. Giornate FAI d’Autunno, 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Il Comune offrì il terreno nella località Petrullo; allo stesso Comune, del quale era sindaco il nobile Simon Passari, che molto si adoperò a favore dei Cappuccini, fu ceduto il convento del Pulo, che poi fu comprato dal nobile Teodoro Micchiello , con la condizione di dare ogni anno ai Cappuccini una libbra (300 gr. circa) di cera da accendere dinanzi al Crocifisso, nuovo titolare della chiesa, nel giorno di Santa Croce.. Probabilmente il vecchio convento fu usato dal nuovo proprietario come abitazione per i contadini in tempo di raccolto. E furono proprio dei contadini che nel 1786, scavando nel piazzale davanti alla chiesa, trovarono una sepoltura che conteneva due scheletri intatti di Cappuccini; divulgatasi la notizia, il popolo accorse in pellegrinaggio. L’allora guardiano, il lettore p. Carlo da Molfetta, d’accordo con il vescovo Gennaro Antonucci, il 20 febbraio dello stesso anno, mandò il p. Francesco Antonio da Molfetta, con due altri Cappuccini, a recuperare le salme, che furono seppellite nella chiesa del Crocifisso.

Nella prima metà del sec. XIX il primo convento era ancora intatto , ma nel 1926 p. Salvatore da Valenzano scrive che era rimasto tutto il piano terra, cioè il cortile con il porticato ad archi romani, il refettorio e la cucina ed anche la chiesa, mentre il piano superiore era stato demolito. Di antico era rimasto solo un piccolo e irregolare corridoio addossato alla chiesa, che, tutta stonacata, era stata adibita a magazzino. Il nuovo convento sorse sotto il titolo del Crocifisso.

Molfetta, Chiesa del SS. Crocifisso. Particolare della facciata. Ph. Maria Cappeluti

Secolo XVII

Sempre dalla relazione di Filippo Bernardi sappiamo che nell’anno «1615 si fece l’aggiunta di sopra con la sagrestia da baso (…) e nel 1644 si fece il coro di sopra, il tutto a spese del pubblico». Nel 1682, grazie all’offerta della famiglia Cucumazzo, fu dipinta la grande tela della Crocifissione da Nicola Gliri, a cui fu appoggiata la statua del Crocefisso in grandezza naturale.

In realtà in questo periodo, per il numero elevato dei frati, molti dei conventi vennero ampliati e ne furono costruiti dei nuovi: Giovinazzo (1612), Triggiano (1614), Bisceglie (1606), Ruvo (1607) e Rutigliano (1612). Il 1600 fu, infatti,  il secolo d’oro per i Cappuccini: il secolo in cui operarono san Lorenzo da Brindisi, che oratore eccelso, conoscitore di molte lingue e di cultura vastissima, durante la sua vita fu generale dell’Ordine, messaggero di pace tra i principi cristiani, diplomatico, ambasciatore, commissario pontificio, cappellano militare e perfino condottiero in una crociata contro i Turchi, e tanti altri che lasciarono un’impronta in seno all’Ordine, tra questi il primo santo dell’Ordine cappuccino: san Felice da Cantalice.

Purtroppo non si hanno molte notizie sulla vita regolare e di preghiera, sulla spiritualità, la disciplina e l’eventuale attività pastorale svolta dai religiosi di Molfetta in questo periodo: la relazione da loro compilata nei primi mesi del 1650 nell’ambito dell’inchiesta avviata da Innocenzo X sullo stato di tutte le case religiose maschili esistenti sul territorio d’Italia e che avrebbe portato alla cosiddetta “soppressione innocenziana dei conventini” (bolla del 15 ottobre 1652), si limita a darci una sommaria informazione circa la struttura conventuale e i nominativi dei frati allora viventi. Sappiamo che a Molfetta c’erano 6 padri, 4 laici e 2 studenti.

Nel 1656 la Provincia di Bari fu flagellata dalla peste e poi dal colera negli anni 1690-1692: i Cappuccini rifulsero per la loro carità operosa, si prodigarono come cappellani e infermieri per i colpiti dall’epidemia e alcuni di loro, contagiati durante l’assistenza agli infermi, persero la vita. La tradizione dei Cappuccini di assistere gli appestati si fondava d’altronde su una disposizione delle costituzioni del 1536 . In quasi ogni centro anche di modesta grandezza vi erano loro insediamenti. Una fitta rete di conventi collegava la Terra di Bari da Barletta a Monopoli. Fu per questo motivo che nel Capitolo provinciale dell’8 maggio 1699 tenuto ad Andria e presieduto dal ministro generale P. Giampietro da Busto Arsizio, la provincia monastica fu divisa in due Custodie. I due centri di Custodia furono Bari e Barletta. Al custode di Bari fu affidata la vigilanza su 15 conventi, a quello di Barletta si assegnarono 14 conventi (Venosa, Lavello, Spinazzola, Minervino, Canosa, Andria, Ruvo, Corato, Terlizzi, Molfetta, Bisceglie, Trani, Giovinazzo e, naturalmente, Barletta). Entrambi governavano l’intera provincia sotto la giurisdizione del padre provinciale. 

Pulpito e altare maggiore. Molfetta, Chiesa del SS. Crocifisso. Ph. Maria Cappelluti

Secolo XVIII

Nel secolo successivo tutti gli ordini religiosi furono coinvolti nel clima innovatore prodotto dalla politica dei nuovi sovrani che conquistarono il regno napoletano nel 1734, i Borbone. Essi affermarono tenacemente le prerogative della regia giurisdizione, sopra-eminente ogni altra nelle province meridionali. La polemica sui religiosi si concentrava sulla loro diffusa presenza nel territorio del regno, sull’accumulo dei beni che con le donazioni dei fedeli essi avevano realizzato, e sul regime privilegiato di cui godevano, soprattutto su quel diritto di asilo nei conventi, come in tutti i luoghi sacri degli ecclesiastici, che avevano generato non pochi abusi e difficoltà nell’amministrazione della giustizia. Nel convento dei Cappuccini di Barletta, per esempio, si rifugiarono nel 1701 alcuni nobili napoletani che avevano organizzato una rivolta contro il regime spagnolo a Napoli, in favore dell’Austria. I frati, valendosi del diritto di asilo, si rifiutarono di consegnare i ribelli alle autorità locali e, d’accordo con un frate teatino giunto da Venezia, fecero imbarcare i congiurati per l’Austria.

I Cappuccini non rimasero estranei alle restrizioni circa la fondazione di nuovi conventi e nuove chiese (in questo secolo fu fondato solo il convento di Campi Salentina  1716-1717), l’acquisizione di legati e privilegi e, pur toccando numericamente il massimo sviluppo nel 1755 nella Provincia di Bari con 528 religiosi distribuiti in 29 conventi, essi subirono l’influenza del clima anticlericale che si era diffuso: se nel secolo precedente erano stati sempre presenti tra il popolo, organizzando comitati e confraternite per combattere la carestia e l’usura, ora vivono in solitudine nei loro conventi distaccati dagli eventi politico-sociali.

Molfetta, Chiesa del SS. Crocifisso, detta dei Cappuccini. Particolare prospettiva dell’altare maggiore e dell’ala superiore. Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Non si hanno molte notizie circa la condizione in cui vennero a trovarsi i Cappuccini a Molfetta in questo periodo, nonostante le ricerche compiute nel 1926 da Salvatore da Valenzano nell’Archivio Generale dei frati minori cappuccini a Roma, in quello Provinciale dei frati minori cappuccini di Puglia a Bari, nell’Archivio diocesano di Molfetta, nell’Archivio di Stato di Milano, dove dopo la soppressione degli ordini religiosi furono versati tutti i manoscritti conservati nel convento dei Cappuccini di quella città, che custodiva  documenti confluiti da tutte le province dell’ordine, perché gli annalisti dei Cappuccini risiedevano a Milano. Altre notizie storiche su questo secolo, come anche per i precedenti, si potrebbero trovare nella Sezione di Archivio di Stato di Trani, dove sono conservati i protocolli notarili di Molfetta dal 1534, nell’archivio del Capitolo cattedrale, che all’epoca non era ancora inventariato e nell’Archivio storico del Comune di Molfetta, che conserva documenti dal 1508, inventariati nel 1953 e nel 1990.

La comunità ospitata nel convento, sempre numerosa, non solo di sacerdoti, ma anche di giovani studenti, continuava ad essere sostenuta da offerte generose da parte del popolo ed anche il Comune contribuiva al loro sostentamento: a Pasqua dava il cero e le tre candele per l’arùndine del sabato santo e mezzo rotolo (ca. 400 gr.) di incenso; aveva anche assegnato 90 ducati per la pietanza di tutto l’anno e pagava le medicine occorrenti ai malati del convento. Pare, però, che tale contributo non venisse dato puntualmente se in un documento conservato nell’Archivio Provinciale di S. Fara, del novembre 1714, i Cappuccini si rivolgono al Regio governatore di Terra di Bari, per sollecitare tale adempimento. Il governatore di Molfetta, Saverio Venturi, a seguito di trattative con il Comune, di cui erano rispettivamente sindaco e cassiere Giuseppe Diego De Luca e Mauro Antonio Mastropasqua, il 15 dicembre dello stesso anno emanò l’ordine che si dovesse assegnare ai Cappuccini: «…la botega del magnifico Nicolò Romano speciale di medicina della quale detti padri s’habbiano da servire per l’occorrenza de loro bisogni nella loro infermità, et al medemo Romano nel tempo stabilito fare il pagamento dell’annui ducati 20 che questa magnifica Università corrispondi alli speciali per li bisogni di detti padri».

In altri documenti si legge di un benefattore, Giuseppe Lepore, che nella fiera di ottobre di ogni anno, dava al convento due tomoli di grano, una forma di formaggio e cinque carlini per la pietanza. Nel 1714 i Cappuccini chiesero ed ottennero dal governo di Napoli un sussidio necessario alla ricostruzione di una parte del convento che cadeva. Altri generosi benefattori sostenevano il culto della chiesa, che era tra le più importanti; si ricordano tra questi, i seguenti donatori, che avevano il diritto di patronato sulla chiesa, come si legge dalle epigrafi che vi furono poste: nella navata di destra, Angelo Antonio Colaianni, sulla Cappella dell’Immacolata (1719), Nicola Lepore, sulla Cappella di S. Felice da Cantalice e Antonio De Luca, marchese di Lizzano, sulla Cappella di S. Antonio (1702), dove una epigrafe ricorda il dono dell’altare. Nella navata sinistra, Sabino Pansino, sulla Cappella di San Giuseppe Leonessa (1726), attuale cappella di S. Nicola; Giuseppe Domenico Panunzio, sulla Cappella di S. Anna (1833), attuale cappella di S. Francesco, che restaurò rifacendone il tetto e decorandola. Nel 1759 fu rifatto il coro e la volta fu dipinta dal pittore molfettese Vito Calò.

Molfetta, Convento dei frati Cappuccini, piano superiore. Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

Secolo XIX
La soppressione degli ordini religiosi

Il movimento di anticurialismo, che si era sviluppato fin dagli inizi del secolo, esplose per tutte le province del regno, in maniera lacerante, agli inizi dell’800 durante il decennio francese.
Nel decennio 1806-1815 i francesi avviarono l’ambizioso progetto di ristrutturare il Regno di Napoli, da loro occupato, sul modello di quello francese e degli Stati più evoluti della vecchia Europa. Così Giuseppe Bonaparte, prima, e Gioacchino Murat, dopo, cercarono di trovare in tempi rapidi una soluzione per sanare il gravissimo dissesto finanziario lasciato dai Borbone. La via più breve apparve subito quella della confisca del patrimonio monastico. Questa prassi trovava un solido supporto nel convincimento che i beni della Chiesa erano beni pubblici e quindi potevano essere utilizzati per il bene comune .
Già nel maggio del 1806 il ministro del Culto, Luigi Serra di Cassano, chiese agli ordinari del regno di indicare il numero e l’ubicazione dei conventi, il numero dei sacerdoti e laici e le loro rendite, intendendo, evidentemente, quantificare il gettito dell’«operazione soppressione» per valutarne la convenienza; il 9 giugno fu vietata la vestizione di nuovi aspiranti e l’ammissione di novizi alla professione monastica, senza il nulla osta regio. Anche il ministro provinciale dei Cappuccini venne invitato a nominare superiori dei conventi solo individui rispettosi delle “leggi e istruzioni reali”.

Con il decreto del 14 agosto 1806 si proibì a ciascun Ordine di avere più conventi nella stessa città e si chiusero i conventi che non ospitavano un minimo di dodici religiosi professi, sottolineando la necessità del provvedimento divenuto improrogabile perché in seguito alle soppressioni avvenute negli altri Stati italiani era divenuto «eccessivo il numero di regolari che vivevano a carico delle popolazioni» e poi perché «la miseria delle parrocchie e lo scarso numero dei parrochi e il bisogno pesantissimo della pubblica istruzione (…) esiggono edifici, fondi ed individui, cui non si può altrimenti supplire che con la soppressione di una parte delle case religiose del Regno» . In realtà il «progetto soppressione» non riguardò «solo “una parte delle case”, ma tutte le case religiose. Per uno Stato moderno servivano “edifici, fondi ed individui”, un trinomio che solo il clero regolare poteva soddisfare: abbandonando i conventi, cedendo i beni mobili e immobili, secolarizzando i frati» .

La legge n° 36 promulgata da Giuseppe Napoleone il 13 febbraio 1807 soppresse gli Ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e S. Benedetto e le loro diverse affiliazioni . Così recitava il testo della legge per giustificare i provvedimenti adottati:

«La forza delle cose obbliga ogni nazione a seguire più o meno lentamente il movimento impresso dallo spirito di ciascun secolo. Gli Ordini religiosi, i quali han resi tanti servigi nei tempi di barbarie, son divenuti meno utili per effetto del successo medesimo delle loro istituzioni: la nostra santa Religione, ormai gloriosa, e trionfante, non è più ridotta a sfuggir la persecuzione nelle oscurità dei chiostri; gli altari sono eretti anche nell’interno delle famiglie: il clero secolare corrisponde alla nostra fiducia ed a quella dei nostri popoli. L’amore delle arti, e delle scienze (…) han forzato tutti i Governi d’Europa a rivolgere verso questi oggetti importanti (…) i mezzi delle loro nazioni; il mantenimento di forze considerabili di terra, e di mare porta la prima necessità di gran riforme in altre parti della economia generale dello stato: il primo dovere dei popoli, e dei Principi è di porsi in stato di difendersi contra le aggressioni dei loro nemici».

Appena due anni dopo, il 7 agosto 1809, con il decreto n. 448 di Gioacchino Napoleone, la soppressione fu estesa agli altri Ordini religiosi possidenti. Sopravvissero a tali leggi soltanto gli Ordini religiosi mendicanti, a carico dei quali, però, vennero applicati diversi ordini di concentramento, di modo che i beni di diversi conventi e monasteri restarono ugualmente a disposizione del Demanio dello Stato.

Nel 1811 il ministro Ricciardi trasmise la lista dei conventi nullatenenti che andavano soppressi. In Puglia vennero chiusi, tra gli altri, i conventi cappuccini di Altamura, Gravina, Barletta, Bari, Bisceglie, Monopoli, Rutigliano, Andria, Acquaviva, Conversano, Lavello, Montepeloso Venosa, Ruvo, Spinazzola della Provincia di Bari; Casarano, Galatina, Tricase, Diso, Otranto, Galatone, Nardò, Gallipoli, Francavilla, Ostuni, Taranto, Martina, Massafra, Ginosa, Lecce della Provincia di Otranto.
Nella Provincia di Bari il numero dei Cappuccini passò dai 528 del 1755 a 178 nel 1816.

Dopo il ritorno dei Borbone e il concordato del 1818 stipulato da Pio VII, che nell’articolo 14 stabiliva di riaprire le case religiose «in quel maggior numero, che sia compatibile coi mezzi di dotazione e specialmente le case di quegli Istituti che sono addette alla Istruzione della gioventù nella religione e nelle lettere, alla cura degli infermi e alla predicazione», parecchi di questi conventi furono riaperti, ad eccezione di quelli di Ginosa, Rugge, S. Elia di Campi Salentina, Otranto, Venosa, Lavello, Montepeloso e quello della Madonna dell’Alto di Lecce, in sostituzione del quale il governo concesse il convento degli Olivetani, vicino al cimitero.

Il convento dei frati Cappuccini di Molfetta, rimasto escluso da questa prima soppressione, continuò ad essere abitato dai frati. Ma i tempi erano comunque mutati. Con il ritorno dei monarchi borbonici a Napoli, si era instaurato un regime di restaurazione politica e sociale che voleva far dimenticare la rivoluzione “repressa”: alcuni cappuccini non lo accettarono di buon grado, almeno nei primi anni e alcuni di loro aderirono alle società segrete che prepararono i moti del 20-21, fino alla rivoluzione del 1848. Sarebbe interessante, attraverso una ricerca nell’archivio dell’Intendenza di Terra di Bari, conservato presso l’Archivio di Stato di Bari, conoscere l’atteggiamento dei Cappuccini di Molfetta: si comportarono come quelli di Brindisi “lodevolmente in quanto alla politica”, come si legge in una nota del 1827 dell’ispettore di polizia all’intendente di Terra d’Otranto, o, invece, qualcuno di loro aderì alle società segrete come il frate Vincenzo da Laterza del convento di Francavilla accusato di riunioni carbonare, in quello stesso anno?

Quando l’antico regno meridionale fu occupato dalle truppe garibaldine e dall’esercito piemontese e le sue regioni vennero a far parte del regno di Vittorio Emanuele II, i Cappuccini di Molfetta non sfuggirono alla soppressione. L’unità d’Italia decretò, infatti, la definitiva soppressione degli ordini religiosi .
Tra i più urgenti compiti del Governo dopo l’unificazione, vi era quello, come sempre, di rafforzare le finanze e poiché il reddito nazionale non era tale da permettere un prelievo fiscale sufficiente ai bisogni del nuovo Stato ed il bilancio statale era in deficit, si ricorse anche, ancora una volta, all’espropriazione e successiva vendita dei beni ecclesiastici. Fu così emanato, il 17 febbraio 1861, da Eugenio di Savoia, luogotenente generale del re nelle Province napoletane, un decreto che sanciva la soppressione delle comunità ed Ordini religiosi, che erano rimasti esclusi dalla prima soppressione, e l’incameramento e la gestione dei loro beni mediante l’istituzione di una Cassa ecclesiastica.

«Le ragioni di questa soppressione erano più radicali di quelle della precedente: si trattava della laicizzazione della società in linea con il convincimento che le istituzioni ecclesiastiche dovevano essere “liberate” dallo stato privilegiato che avevano goduto durante l’antico regime di cristianità e le associazioni esistenti nel territorio nazionale dovevano fondare il loro diritto di essere in base alla legge dello Stato nazionale che ne riconosceva la pubblica utilità. In fondo a tale politica vi era la considerazione della irrilevanza sociale delle esperienze religiose, essendo l’atteggiamento religioso un “affare privato” e le confessioni religiose avevano, in linea di principio, uguale spazio nella società, ordinata dallo Stato moderno».

Cacciati dai loro conventi, che divennero carceri, lazzaretti, case per i senza fissa dimora, ospedali, ricoveri per anziani, i frati si riunirono dove potevano o presso istituti pubblici di beneficenza, o presso le chiese che officiavano da cappellani. Le biblioteche e gli archivi conventuali furono requisiti e incorporati alle biblioteche comunali e in parte, specialmente gli archivi, distrutti. La biblioteca del convento  di Molfetta si salvò perché i frati non se ne allontanarono e ora nella Biblioteca Provinciale di S. Fara, se ne conservano circa 400 volumi di autori dell’Ordine e di libri antichi, più gli incunaboli. Gli effetti della soppressione furono devastanti. Nelle Provincia di Bari nel 1867 erano fuori da 26 conventi cappuccini 170 sacerdoti e 115 religiosi laici e nella Provincia di Otranto erano fuori dai 25 conventi 161 sacerdoti e 64 laici. I cappuccini restarono presenti solo a Molfetta, a Rutigliano, sistemati in un solo corridoio  del convento, e a Triggiano,  per il culto della chiesa. In una lettera scritta nel 1873 da p. Vito Maria da Rutigliano leggiamo tutta la tristezza di quei momenti: «… e noi volgendo gli occhi alle nostre terre desolate e doloranti, agli splendidi e poverini nostri abituri, alla nostra armonica frateria, non possiamo non piangere sulla nostra sventura». I superiori provinciali continuarono il loro governo, e cercarono di stimolare i frati ad osservare la Regola nei limiti del possibile, a non isolarsi completamente ed a segnalare la propria presenza. «Questi frati continuarono ad essere testimoni di una vita consacrata perseguitata ma non offuscata – come scrive padre Rosario Amico – e furono di esempio alle nuove vocazioni».

Molfetta, Chiesa del SS. Crocifisso. Foto scattata in occasione delle Giornate FAI d’Autunno. 12-13 ottobre 2019. Ph. Maria Cappelluti

La ricostituzione della provincia monastica

Con padre Vito da Putignano, nominato provinciale della Provincia di Bari nel 1882, la provincia monastica incominciò a riorganizzarsi. Dopo circa 20 anni di interruzione, si presentarono nuovi candidati all’Ordine, che vennero inviati da padre Vito nelle Marche e nell’Umbria, riorganizzatesi più facilmente, per la formazione religiosa. Praticamente il 1900 segna la data di restaurazione della Provincia; nel 1901 le due Province di Bari e Lecce vennero riunite sotto la direzione di un unico commissario, padre Serafino da Santeramo, con sede a Francavilla Fontana. Nel 1903 le due Province si divisero ancora e a Barletta ebbe sede il commissario generale della Provincia monastica di Bari fino al 1908, quando le due province di Bari e Lecce si riunirono ancora una volta, per poi prendere nel 1926 (9 aprile)l’attuale titolo di Provincia di Puglia.

In pochi decenni, i Cappuccini, che nella Provincia di Bari nel 1908 erano scesi a soli 67 sacerdoti e in quella di Otranto nel 1902 avevano toccato il minimo storico di soli 22 frati, attraverso una paziente opera di ricostruzione della loro presenza in tutta la provincia pugliese, riuscirono a riacquistare i vecchi conventi di Campi (1919), Montescaglioso (1904), Scorrano (1884), Alessano (1928), Terlizzi (1932); e a costruirne di nuovi: Bari (1919), Barletta (1902), Francavilla (1897), Giovinazzo (1903), Trinitapoli (1903). Insomma, «il periodo che avrebbe dovuto segnare la fine di un’esperienza, si rivelò, invece, come rinascita di un ideale». Nella relazione  della  visita alla Provincia di Bari – Lecce compiuta  nel 1925 da fra Gregorio da Breno, visitatore generale cappuccino, leggiamo: «…i frati godono di stima presso i popoli. Dappertutto trovai grande fiducia in essi. Le loro chiese sono più frequentate che non quelle dei secolari, i loro penitenti più numerosi. Ha pure gran stima dei frati il clero, che assai spesso si porta da esso a confessarsi. In ogni convento il clero (…) venne a farmi visita e dei frati mi fece le più ampie lodi. Volentieri anche li chiama a confessare e predicare. Ebbi campo di visitare i vescovi di Molfetta, Matera, Bari, Andria e Trani e tutti, niuno eccettuato, ebbero parole di lode per i Cappuccini».

A buona ragione, nel 1932 p. Salvatore da Valenzano poteva scrivere: «La nostra Provincia non ha mai visto il tramonto nonostante le tristi vicende della persecuzione, dello spogliamento da parte dei governi atei, della dispersione dei deboli e della fuga dei vili».

Molfetta, Chiesa dei Cappuccini: dipinto di San Nicola. Entrando nella Chiesa del SS. Crocifisso o dei Padri Cappuccini a Molfetta, considerata la chiesa madre dei frati cappuccini della Puglia, a sinistra, vi è la cappella dedicata a san Nicola e, in essa, un bellissimo quadro settecentesco del santo vescovo di Myra. Anticamente la cappella era dedicata a san Serafino da Montegranaro. In seguito, fu dedicata a san Nicola, santo venerato sia nella chiesa latina che in quella ortodossa, nonché amatissimo nel territorio molfettese. La cappella era dotata di un altare che fu rimosso nel 1967. Attualmente, sul muro centrale, si può ammirare il dipinto di san Nicola, olio su tela (m1,25 x 2) attribuito alla bottega dei pittori De Musso di Giovinazzo, databile alla seconda metà del 1700. La tela è inserita in una cornice dorata, sagomata superiormente, come quella dell’Immacolata e quella della Madonna del Rosario. San Nicola Vescovo, vestito di solenni paramenti liturgici (mitra, pastorale, vesti sacerdotali, pallio, piviale) è rappresentato in età matura, con fluente barba bianca ed espressione vivida e paterna. La mano destra è benedicente; la sinistra regge l’evangelario e il pastorale. Nella tela sono evidenziati i simboli che l’iconografia tradizionale lega al santo di Mira: i tre bambini miracolati che – grati al santo – escono vivi dalla botte in cui, rinchiusi, sarebbero morti; un giovinetto in costume settecentesco, che regge anfora e piatto, probabile garzone d’osteria, attinente al miracolo dei tre bambini. Sull’evangelario sono rappresentati tre pomi, simbolo dei doni che il vescovo Nicola offriva ai bisognosi. La figura del santo, bene equilibrata tra le altre, è leggermente marcata sul lato destro. Il piede in avanti conferisce un movimento più elegante alla figura ed una lumeggiatura varia al panneggio delle vesti. Nella composizione, i colori più vivi si oppongono armonicamente a quelli più scuri, sotto una luce dorata che dall’alto si stende nel ciclo e nelle figure. Risaltano le sfumature giallo-oro della mitra e del piviale, il motivo a croce greca della dalmatica, l’incarnato roseo dei corpi nudi dei bambini. Note tratte dal libro di Padre Leonardo Lotti, “La Chiesa dei Cappuccini in Molfetta, Ed Insieme, Terlizzi 2006, Collana storica “I Cappuccini nelle Puglie”, vol XII. 

I Cappuccini di Molfetta dopo la soppressione

Ma torniamo a Molfetta. Tolto loro il convento, i frati decisero di comune accordo di non allontanarsi dalla città e presero in affitto una casa in via Terlizzi, dove rimasero fino al 1867. In quell’anno il convento fu acquistato, il 1 aprile, dall’Amministrazione comunale. Nell’Archivio storico del Comune di Molfetta dovrebbero essere conservati i verbali di consegna degli oggetti sacri appartenenti al convento dei Cappuccini, così come notizie interessanti si potrebbero trovare nell’archivio dell’Ufficio del registro di Molfetta, versato nell’Archivio di Stato di Bari, dove si trovano i verbali di presa di possesso e gli inventari dei beni delle soppresse corporazioni religiose e nell’archivio della Prefettura di Bari (1858-1938), dove nella serie I, Affari generali, sono conservati i verbali della Commissione per la sorveglianza sull’amministrazione ed alienazione dei beni dell’asse ecclesiastico e i verbali di aggiudicazione. La chiesa fu affidata al prof. Corrado Salvemini che per circa mezzo secolo provvide al mantenimento del culto divino con l’aiuto dei frati superstiti, ai quali furono concesse per abitazione poche celle del convento.

La parte più vasta rimase vuota fino al 1875 e fu poi assegnata dal Comune al sacerdote Lorenzo Apicella, che vi collocò l’ospizio delle sordomute. Dopo il trasferimento di queste nel nuovo edificio appositamente costruito, i locali furono ceduti alla Congregazione di Carità, che vi stabilì un ricovero per donne anziane. Nel 1910, però, i Cappuccini persero anche questa sistemazione. In  una relazione inviata nel 1910 dal p. provinciale Eugenio da Senigallia al ministro generale leggiamo: «Al convento è annesso il Ricovero di mendicità per donne, e fino agli ultimi tempi i religiosi occupavano un piccolo dormitorio separato dal Ricovero, composto di sette camere; ed avevano a loro uso la Sagrestia, la chiesa che ufficiavano e tutti gli arredi sacri. Si andava meno male ma una tale modesta convivenza fu turbata dal Presidente della Congregazione di Carità, notoriamente massone. Il quale col pretesto di aver bisogno di altro locale per le vecchie, un bel giorno chiede lo sfratto dal convento dei frati. Un tale sfratto forzoso – che costrinse i frati a partire per Giovinazzo – indignò fortemente la buona popolazione di Molfetta la quale ad esprimere tutto il suo malcontento fece pubblica e clamorosa manifestazione ostile al Presidente ed una ovazione di simpatia ai frati. Né qui si fermò. Ad una voce tutti promisero che alla prima occasione avrebbero cacciato dalla Congregazione di Carità il presidente anticlericale e mantennero la parola. E difatti in occasione delle elezioni amministrative il presidente e i suoi fautori si ebbero una solenne disfatta: il sindaco e la giunta nominarono presidente un signore cattolico, favorevole ai religiosi e tutto fa sperare, che quanto prima i frati tornino in convento: giacché tale è il nostro vivo desiderio e quello di tutta la popolazione cattolica. E ve n’è un vero bisogno, giacché le cose come ora sono non possono lungamente andare. Imperocché i religiosi – tornati da Giovinazzo – ora abitano in una casa, non molto lungi dalla chiesa, offerta ad essi per alloggio da un generoso signore di Molfetta (Vincenzo Brudalia): ma ciò nonostante i religiosi vi stanno molto a disagio. Il fabbricato ceduto gratuitamente ai frati si compone di due soli vani: in uno sono stati collocati tre letti per tre sacerdoti; nell’altro è stata impiantata la cucina e il refettorio. Non vi è scoperto o giardino; i religiosi per andare in chiesa o al passeggio devono uscire. I fratelli laici dormono alla meglio su di brande, che hanno collocate in una camera attigua alla Sagrestia (…) La maggioranza della popolazione, specie femminile è devota e si mostra assai generosa coi religiosi, che molto stima ed ama. Con la questua si trova tutto. Il vino e l’olio si raccoglie per tutto l’anno, e talvolta avanza. Il pane si raccoglie in abbondanza tutti i giorni; come pure il pesce ogniqualvolta si va al porto per dimandarlo. Tutti i giorni si raccoglie denaro più che bastante per sopperire alle spese necessarie per la religiosa famiglia. Non ho veduta alcuna città così sinceramente affezionata ai Cappuccini, come Molfetta. Se i Cappuccini fossero costretti a partire vi sarebbe timore che il popolo facesse rivoluzione. E se il convento si mettesse in vendita, non vi sarebbe alcuno che non concorresse anche generosamente per ricomprarlo. Ed è questo il motivo per cui ora si stanno facendo tanti sacrifizii: per non abbandonare (come ne sarebbe venuta la tentazione) questa popolazione così buona ed affezionata».

Nel 1911, nella Congregazione capitolare tenuta a Francavilla Fontana il 1 giugno, si decise che se per il 15 agosto i religiosi non avessero avuto una stabile e conveniente abitazione  o non fossero rientrati in convento per poter riprendere la vita regolare, la religiosa famiglia sarebbe stata  traslocata da Molfetta. Ma non fu possibile realizzare tale proposito perché il vescovo ricorse al padre generale e il delegato di Pubblica sicurezza, a nome del prefetto, intimò al Superiore che, se per la partenza dei frati fosse nata «una sollevazione nel popolo», lo avrebbe ritenuto responsabile. E infatti, il p. Eugenio da Senigallia, nella relazione al ministro generale, scrive: «L’Ospizio di Molfetta si trova in peggiori condizioni. Ivi sono due soli sacerdoti con due fratelli laici; la chiesa è Santuario dedicato al SS. Crocifisso e quei due confessori lavorano come facchini da mattina a sera; e perché la Casa dista dalla Chiesa, di regolare osservanza si fa poco o nulla. Ed è perciò che in Congregazione era stato deciso di chiudere anche tale Ospizio. La popolazione è affezionatissima ai Cappuccini ed anche molto generosa. In occasione della visita pastorale si presentò una Commissione di signori, la quale mi assicurò che nel mese di gennaio, il municipio avrebbe posto in vendita l’ex convento (ora adibito a ricovero di mendicità) ed essi l’avrebbero acquistato per farvi entrare i religiosi, ma non se ne fece nulla. Le promesse, anche per lo passato sono state molte e continue, non mai verificate. La definizione era d’avviso di chiudere quell’Ospizio, ma io non ho saputo risolvermi a tal passo: 1° per non far sorgere una rivolta presso quella buona popolazione; 2° per contentare mons. Vescovo il quale sempre mi raccomanda di aspettare con pazienza un altro poco; 3° anche perché avvenendo una soppressione, i religiosi sono più sicuri in una casa che in un convento. Tutto considerato ho preso la seguente decisione: 1° si prenda in affitto per un anno una casa, più vicina alla chiesa del convento, in cui tutti i religiosi abbiano la propria camera; 2° di giorno si faccia l’ufficiatura consueta, con le altre preci e la meditazione in chiesa; 3° intanto si facciano pratiche attive o per ritornare in convento, o per prendere in affitto o comprare una casa libera, indipendente ed attigua alla chiesa. Spirato l’anno, se non verranno eseguite tali decisioni, chiuderò l’Ospizio, senza dare ascolto a nessuno».

Messa esterna in occasione delle celebrazioni in onore di San Pio da Pietralcina che si venera all’interno della Chiesa dei Cappuccini. Ph. Maria Cappelluti.

Il ritorno nel convento

L’11 dicembre 1911 il superiore del convento, p. Giuseppe da Ceglie del Campo, fu nominato dal Comune cappellano della chiesa, ma solo nel 1913 i frati poterono tornare nel loro convento quando, ricorrendo le elezioni politiche, i cattolici, invitati con insistenza a dare il loro voto, dichiararono che lo avrebbero fatto solo a patto che, prima delle elezioni, si restituisse ai Cappuccini il convento da cui erano stati cacciati nel 1910; ciò avvenne con un decreto del prefetto di Bari del 2 ottobre 1913: la Congregazione di Carità e il Municipio cedettero ai «frati numerose camere dell’antico convento, con il coro così possono fare la regolare osservanza e l’ufficiatura di giorno».
Da allora i Cappuccini, che vi hanno abitato ininterrottamente fino al 1973, quando vennero inseriti nella comunità di Giovinazzo, continuarono a svolgere con maggiore operosità il loro apostolato. Con la “numerosa Congregazione del Terz’Ordine”, che spesso nei verbali delle sante visite e nelle relazioni che i provinciali inviavano al generale viene indicata come “una delle più floride” insieme con la scuola catechistica “ben diretta” da una “eletta schiera di terziarie”, fiorirono parecchie istituzioni per l’istruzione e l’educazione della gioventù.
«In tal modo i Cappuccini – scrive nel 1926 Salvatore da Valenzano – si sono acquistati nuovi titoli di venerazione per cui non sarà più possibile che abbandonino quella chiesa e quel popolo, che ai piedi del Crocifisso va a deporre i suoi sacrifici, la sua fede, le sue speranze».

Il grande Crocifisso dei Cappuccini di Molfetta è uno dei più belli e imponenti esistenti in Italia. Ph. Maria Cappelluti

Negli anni successivi essi tentarono più volte di rientrare in possesso del convento, senza mai riuscirci . Tuttavia, da allora fino ad oggi, l’edificio è stato continuamente oggetto di interventi volti al suo miglioramento. Ne citiamo solo i più importanti: nel 1921 grazie all’elemosina straordinaria di lire 10.000 avuta da due benefattori si eseguirono alcuni lavori «necessarissimi che – scriveva il p. provinciale Zaccaria da Triggiano al generale – hanno dato, direi, la vita fisica a quel piccolo convento. Si è aperta una bella e comoda scala alla nuova terrazza chiusa da muri alti che formano il principio di un secondo piano che si spera compire quam primum»; nel 1924 durante la Santa visita sempre Zaccaria da Triggiano diede  disposizione che si facesse quanto prima il refettorio «nella stanza attigua alla cucina, che ora viene adibita quale cella per dormire, e l’altra attigua si adoperi per dispensa. Il vecchio refettorio si converta in libreria»; tali disposizioni venivano riconfermate nel 1925 dal p. provinciale Bernardino da Rutigliano: «fare il refettorio e la canavetta nei due locali occupati presentemente dal p. guardiano, facendovi la buca di comunicazione con la cucina e il lucernario sotto la volta. Dov’è ora il refettorio si faccia la biblioteca e la stanza di ricevimento».

Abbiamo notizia di altri lavori eseguiti nel 1932 nel convento, dove era stata costruita una camera sopra la “stanza di ricevimento per la biblioteca”, e nella  chiesa che era stata “ripulita tutta, anche le tele” ed era stata rifatta a spese di un benefattore la pittura di tutta la volta (£ 1.800) e la nuova copertura della stessa; nel 1935 si decise la costruzione di un secondo piano, che fu parzialmente attuata nel 1937, quando si ampliarono anche le finestre; nel 1942, grazie a tre benefattori, si fecero importanti restauri in chiesa, alle cappelle di S. Francesco, dell’Immacolata e di Sant’Antonio, abbattendo i vecchi altari e ricostruendoli con pietra di Trani, abbellendo le cappelle con lastre della medesima pietra, pitture e decorazioni; nel 1955 venne restaurato un intero lato del convento e venne approntato un locale a piano terreno per ricreatorio della Gioventù Francescana; nel 1957 si costruirono tre sale sul fianco destro della chiesa, guardando la facciata, per il catechismo, il movimento e le adunanze del Terz’Ordine; nel 1967 venne demolito l’altare maggiore e costruito quello “versus populum” e fu restaurata la cappella del Crocifisso; nel 1968- 1969 venne rinnovato il pavimento e tinteggiata la chiesa. Il resto è storia dei nostri giorni.

Dal sito web: Pace Bene Mondo

Molfetta, lo straordinario Crocefisso dei Cappuccini. Ph. Maria Cappelluti

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