“L’Infinito”, uno dei maggiori incanti prodotti dalla poesia universale

Fra i testi più belli che siano mai stati scritti, racconta quella sensazione straordinaria di perdersi nel mare dell’immaginazione

Giacomo Leopardi (1798-1837) è ritenuto il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull’esistenza e sulla condizione umana – di ispirazione sensista e materialista – ne fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.

Giacomo Leopardi scrisse “L’Infinito” fra il dicembre del 1818 e il gennaio del 1819, quando aveva vent’anni. Quella lirica è considerata uno dei maggiori incanti prodotti dalla poesia universale.

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L’Infinito non è solo di una bellissima poesia, ma ritrae perfettamente uno stato d’animo dell’Uomo. Spazio e tempo come entità non limitabili, che si concretizza nell’alternarsi delle stagioni, nello scorrere del tempo, nella vita che muore e rinasce senza soluzione di continuità.

L’Infinito è simultaneamente immensità dello spazio ed eternità del tempo, elementi conoscitivi e cognitivi del concetto d’ineffabile, una condizione indispensabile per ovviare alla presenza di barriere fisiche, il colle, la siepe, convertiti dalla cogitatio del Poeta in un incentivo ulteriore, che dai recessi della sua anima edifica un orizzonte illimitato e un soprannaturale silenzio in cui eterno, passato e presente si confondono, ponendolo in bilico tra la perdita di sé — «Così tra questa immensità s’annega il pensier mio» — e il piacere che da essa deriva — «E il naufragar m’è dolce in questo mare». Quando nei primi versi scrive «Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte, dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…» allude alle pareti della sua prigione. L’immobilità, l’impotenza costretta, furono la spinta per quei versi.

Il conte Monaldo, padre di Giacomo, severissimo, letterato, riteneva che il figlio, così come i suoi fratelli, dovessero vivere studiando, “oppressi” dalla grande libreria di famiglia. La vita “fuori” non era necessaria ma Giacomo ne soffrì e così cercò di “vivere” attraverso la sua fantasia che non aveva limiti. L’Infinito fa parte di questa ricerca di evasione. Attraverso una sintesi, certo arbitraria e insufficiente, si può rilevare la siepe come ostacolo per l’orizzonte, ma la fantasia può intuire «interminati spazi» ma anche «sovrumani silenzi» che possono portare sgomento e un’indicazione di eternità, favorita dallo «stormire del vento» che con la sua mobilità può portare lontano, verso l’infinito, appunto. Verso il futuro ignoto, verso un’illusione che non ci abbandona mai.

Una narrazione del componimento non è davvero semplice. L’infinito di Leopardi è una poesia-magnete. Certe opere del genio umano non si possono banalmente “capire”, ma superano ogni tentativo di definizione, si devono piuttosto con-prendere, portare con sé e sempre occorre lasciarsi interrogare, stupire, guidare.

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