Le streghe sono esistite davvero a Molfetta?

Racconti incredibili di altri tempi. Solo leggende e superstizioni? Cosa provocò nella notte tra il 30 e il 31 marzo di un anno imprecisato l’accorata invocazione alla Madonna Addolorata? Il rito arcaico de “l’Avémmérì alla Médonne”

Il bersaglio principale della lotta che la Chiesa cattolica fece alla stregoneria fu sin dal principio la donna. Leggendo oggi il Malleus Maleficarum, il famoso libro del 1487 che indicava come riconoscere le streghe, si direbbe che la componente misogina dovrebbe risultare assodata. Dal testo, infatti, risulta evidente che le donne, i loro corpi e la loro sessualità erano visti come intrinsecamente demoniaci.
Una stampa del Seicento che ci aiuta ad immaginare l’arresto di Rosa de Pantaleo

i nostri racconti non sono convenzionali. Non ci interessa stabilire un confine certo tra storia e leggenda, anzi. I racconti del passato ci affascinano a prescindere, e più sono incredibili, più ci intrigano e ci spingono a divulgarli ai nostri lettori. Oggi vi parleremo di streghe, quelle della nostra città. Ma sono esistite per davvero? Troppo facile e troppo comodo dare subito una risposta certa a questa domanda.

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Nel mondo di oggi si dà per falsa l’esistenza di streghe, stregoni e spiriti, bisogna sapere però che meno di cinque secoli fa, la stregoneria era molto conosciuta dal popolo, ed è per questo che pure nella piccola città di Molfetta fu attivato il tribunale dell’inquisizione. Innumerevoli storie ruotano intorno al tribunale dell’Inquisizione, non tutte -anzi quasi nessuna – considerate positive.

Questo tribunale ecclesiastico, anche nella nostra città, perseguitava gli eretici e le streghe, emettendo le sue terribili sentenze, grazie alle testimonianze, anche se dubbie, del popolo che giurava di aver visto praticare dal malcapitato, ma soprattutto dalla malcapitata di turno, magie e sortilegi. Sicuramente ci furono persone che solo per vendetta e soldi fingevano di aver visto operare magie e incantesimi. Erano perlopiù delazioni, denunzie segrete motivate da ragioni riprovevoli. Accusare una persona di stregoneria era anche il modo più semplice ed impunito di vendicarsi di veri o presunti torti subiti, o di liberarsi di una scomoda vicina accusandola di essere dedita a riti satanici. Non sempre era così, però.

Sappiamo che in passato non esisteva una netta distinzione di ruoli tra magia, medicina e pratiche di varia natura finalizzate alla guarigione di qualcuno. Sappiamo anche che in passato esistevano le cosiddette “masciare” specializzate nelle guarigioni ma anche nel “togliere o lanciare fatture“, ovvero nell’annullare o indirizzare su commissione, un incantesimo o una maledizione su qualcuno. Erano quindi anch’esse delle streghe? Più o meno. E’ davvero difficile anche in questo caso dare una risposta certa. Fatto sta che l’esistenza di queste donne “specializzate” in “pratiche particolari”, se così si può dire, che conoscevano anche i rimedi naturali, le piante e le erbe officinali, contrariamente a quel che si crede, è stata ampiamente tollerata. Non del tutto, però, e non in ogni tempo. La reputazione di queste donne in passato era circondata da misteri e segreti, di loro si parlava bisbigliando, quasi si volesse nascondere ogni contatto o rapporto avuto con loro. Eppure in molti avevano rapporti con queste donne. Ciò che spesso si faceva segretamente in privato era giudicato riprovevole in pubblico.

Erano queste donne il residuo di un tempo antichissimo. Lo scrittore latino Petronio parla di loro definendole “le Figlie della Notte”. Nel nostro gergo esse erano (e sono perché pare ne esistano ancora) le “Masciàre”, sorta di fattucchiere capaci di ricorrere ad incantesimi o sortilegi, ma anche a miracolosi filtri guaritori, per venire incontro alle richieste delle persone afflitte dai più svariati problemi, veri o presunti che fossero. I loro rimedi risultavano molto efficaci, almeno secondo le credenze del tempo, molti comunque ritenevano che lo fossero.

Duramente osteggiate dalla Chiesa ed accusate di essere streghe in un’epoca in cui il sapere era esclusivo privilegio maschile, si trattava in realtà di donne che erano riuscite a sopravvivere al tempo ed ai roghi, creandosi intorno una cortina di mistero e riservatezza, grazie alla loro conoscenza di rimedi naturali, più o meno efficaci, erbe perlopiù, utilizzate per combattere anche le malattie di quel tempo. All’occorrenza erano un po’ farmaciste e un po’ psicologhe. E’ probabile quindi che le streghe di Molfetta di cui si ha memoria, fossero proprio le “Masciàre”. La loro presenza, contrariamente a quel che si crede, è stata tollerata dal popolo per secoli, con qualche eccezione, però, come vi abbiamo già anticipato.

Secondo alcune testimonianze del passato, il rito arcaico de “l’Avémmérì alla Médonne”  aveva lo scopo di scacciare le streghe dalla città grazie all’intercessione della Madonna Addolorata. La tesi non è del tutto avventata. Superstizioni, sicuramente, che però avrebbero provocato, nella notte tra il 30 e il 31 marzo di un anno imprecisato, l’accorata invocazione alla Madonna finalizzata alla cacciata delle streghe.

Orazio Panunzio nel suo libro Molfetta attraverso le costellazioni racconta che un tempo a Molfetta esistevano due streghe che non avevano origine molfettese. La prima, la strega buona, si chiamava Viola ed era nata in un’isola della Grecia. La seconda, la strega cattiva, si chiamava Margherita e proveniva da un paese della Calabria. Le due donne non erano viste di buon occhio dalla popolazione molfettese perché operavano incantesimi e sortilegi maledicendo tutti i santi del Paradiso. Il popolino asseriva che le due streghe fossero ammalate di licantropia, che soffrissero il “mal della luna”, di quel male oscuro che le trasformava di notte in bestie feroci e le induceva a fuggire nelle strade, urlando e contorcendosi, specie nei crocicchi, terrorizzando tutta la popolazione.

Antonio Salvemini, nel suo saggio storico dedicato alla storia civile di Molfetta dalle origini a tutto il XIX secolo, ci riporta come il 22 dicembre del 1675, nella chiesa cattedrale di Molfetta, il Vescovo Carlo Loffredo, condannò per stregoneria Rosa de Pantaleo a vivere per sempre in carcere ed essere frustata. La donna era stata condannata per aver rinnegato la Santissima Trinità, per aver rinunziato al battesimo e per aver fatto con ossa di neonati, non ancora battezzati, un unguento. Sappiamo oggi che la donna, che secondo lo storico molfettese morì impenitente, strega non lo fu mai, pur confessando di esserlo. Sappiamo anche  che dopo la condanna alla prigione perpetua, questa donna prese il coraggio della disperazione pur di non darla vinta ai suoi persecutori che l’accusano evidentemente di delitti e pratiche assurde che la stessa quasi sicuramente non aveva mai posto in essere.

Angelo Caroselli, La negromante, XVII secolo, Ancona, Pinacoteca Civica.

Molfetta a quei tempi era una città radicalmente diversa da quella di oggi. Dobbiamo pensare ad un piccolo borgo completamente buio durante la notte, con vie strette e tortuose, praticamente deserte già dopo il tramonto, soprattutto in inverno, quando le persone si rintanavano con gli animali domestici in case che spesso erano solo dei piccoli oscuri e malsani tuguri, puzzolenti, illuminati la sera solo da qualche candela, senza finestre, senza acqua corrente e servizi igienici, dove in poco spazio dormiva tutta la numerosa famiglia. Luoghi in cui era facile ammalarsi e morire anche in tenerissima età.

Molfetta era un piccolo borgo cinto da alte mura con pochi varchi di accesso. Le porte, che si chiudevano al tramonto, non consentivano a nessuno il transito fino all’alba del giorno dopo. La città era piccola e la stragrande maggioranza della popolazione era povera, lercia e superstiziosa. La vicenda di Rosa di Pantaleo si inserisce in questo fosco mondo.

Rosa rimane vedova intorno al 1640 e per guadagnarsi da vivere fa la prostituta. Si risposa e dal suo secondo matrimonio nascono tre figli. Le cose sembrano finalmente andare per il meglio ma ad un certo punto anche il secondo marito muore. Oltre a dover fronteggiare una situazione familiare difficile, la donna accusa spesso malesseri fisici, ragion per cui Rosa ricorre con frequenza, per alleviare ai suoi mali, alla pratica del “piombo fuso”, una magia bianca tollerata dalla chiesa (nel recinto della stregoneria rientrava infatti anche la medicina popolare, che mescolava scienza empirica e magia).

Iniziano però a giungere le prime accuse contro Rosa da parte del vicinato per motivi futili ma, nonostante la diffida del Vescovo, Rosa, se pure con titubanza, si presta a curare una vicina di casa. La pratica non ottiene risultati sperati, e le dichiarazioni accusatorie della vicina, insieme a quelle dei suoi parenti acquisiti che mal la sopportano, portano gli inquisitori ad intentare un processo contro di lei nel 1671. La donna allora confessa di fare uso di magia bianca a fin di bene, come guarire dai malanni, facilitare i matrimoni o riportare la pace nelle famiglie. Poi nel 1672, sotto tortura, Rosa inizia a confessare cose che non ha fatto: di aver rinnegato il battesimo, Cristo e la Madonna, di trasformarsi in gatto, di aver praticato infanticidio e di essersi unta con il sangue del bambino nella notte del Sabba, di aver venduto l’anima al diavolo. Dopo quattro anni, a Rosa viene dato un avvocato d’ufficio, che crede alla sua innocenza, ma non riesce a salvarla dalla inevitabile condanna. La sentenza viene emessa il 22 Dicembre 1675, e la donna viene condannata all’ergastolo.

Viene detenuta nel carcere dell’Episcopio da dove tenta più volte la fuga. Il mare lo riesce a vedere bene dalla finestra della sua prigione, perché l’acqua un tempo arrivava fin sotto l’antico Episcopio. Da qui si getta Rosa per tentare la sua prima fuga. La recuperano i pescatori e la riconsegnano agli inquisitori. Tenta di nuovo di scappare, e prova a calarsi all’interno del Duomo stesso in cui c’era una finestrella che si affacciava nella chiesa, oggi murata. Realizza una corda con le lenzuola della sua cella, ma le lenzuola sono già di per sé logore e consumate, per cui la corda si rompe e Rosa cade rovinosamente a terra. La mattina dopo il sagrestano la ritrova all’interno del Duomo, con il braccio rotto e dolorante per le lesioni riportate. Viene subito soccorsa e portata di nuovo nella sua cella. Gli inquisitori ed il Vescovo la pregano di abiurare, senza successo. Dopo poco tempo trascorso in agonia, il 27 aprile del 1676 Rosa viene trovata morta nella sua cella.

Strega, Rosa non lo era, ma confessò di esserlo in uno degli ultimi processi di stregoneria in Europa, consumatosi proprio a Molfetta tra il 1671 e il 1675, a un passo dal razionalismo, dietro l’angolo dei Lumi. Strega che, dopo la condanna alla prigione perpetua, prese il coraggio della disperazione e mai abiurò, pur di non darla vinta ai suoi persecutori. Se per loro era strega, non l’avrebbe più rinnegato, e per questo motivo dopo la sua morte, fu sepolta in terra sconsacrata.

Fine del racconto sulle streghe a Molfetta? Nient’affatto… Torneremmo sul tema.

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