L’incanto del Cristo Velato. Mistero e fascino di un’opera d’arte incredibile

Il Cristo velato della Cappella Sansevero è una delle opere più affascinanti e misteriose che si possano vedere a Napoli e in Italia

Quando Antonio Canova vide per la prima volta il Cristo Velato nella Cappella Sansevero a Napoli esclamò che avrebbe dato volentieri dieci anni della sua vita pur di esserne egli stesso l’autore. E invece la potestà è dello scultore napoletano Giuseppe Sanmartino. Nel 1753, Sanmartino aveva 33 anni e in soli 3 mesi portò a compimento il capolavoro della vita.

Posto al centro della navata della Cappella Sansevero, il Cristo Velato è una delle opere più note e suggestive al mondo. Ricavato da un unico blocco di pietra, è un’opera interamente in marmo, una perla dell’arte barocca che dobbiamo esclusivamente all’ispiratissimo scalpello di Giuseppe Sanmartino e alla fiducia accordatagli dal suo committente, Raimondo di Sangro, detto Principe di Sansevero chiamato a Napoli il “principe diabolico” per via della sua attitudine agli esperimenti scientifici, dall’ottica all’idraulica ai giochi pirotecnici (sua è l’invenzione del primo fuoco d’artificio di colore verde!).

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Il Cristo Velato è una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua.

La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro, uno dei personaggi più misteriosi del Settecento italiano, ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe esoterista, filosofo, astronomo, poeta, scrittore, guerriero, massone, inventore, scienziato, alchimista e accademico.

In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua. L’originale messaggio stilistico è nel velo. La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato.

Il Cristo velato del Sanmartino è uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi. Fin dal ’700 viaggiatori più o meno illustri sono venuti a contemplare questo miracolo dell’arte, restandone sconcertati e rapiti. Tra i moltissimi estimatori si ricorda Antonio Canova, che durante il suo soggiorno napoletano provò ad acquistarlo e si tramanda dichiarasse in seguito che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile. E ancora: nelle sue memorie di viaggio il marchese de Sade esaltò “il drappeggio, la finezza del velo […] la bellezza, la regolarità delle proporzioni dell’insieme”; Matilde Serao consacrò in un densissimo scritto tutta la passione significata dalle fattezze del Cristo; il maestro Riccardo Muti ha scelto il volto del Cristo per la copertina del suo Requiem di Mozart; lo scrittore argentino Hector Bianciotti ha parlato di “sindrome di Stendhal” al cospetto del velo marmoreo “piegato, spiegato, riassorbito nelle cavità di un corpo prigioniero, sottile come garza sui rilievi delle vene”. Da ultimo, in un’intervista rilasciata a «Il Mattino», Adonis, uno dei più grandi poeti contemporanei, ha definito il Cristo velato “più bello delle sculture di Michelangelo”.
La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, la narice che aspira leggermente il velo stesso, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice, sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità.

Osservando attentamente questa straordinaria opera d’arte è come se sotto quel velo non giacesse un corpo privo di vita, ma solo temporaneamente addormentato. Potrebbe essere un riferimento alla Resurrezione, oppure, con maggiore probabilità, un riferimento al percorso iniziatico degli iscritti alla Massoneria: morire per risorgere nella Conoscenza. E la Conoscenza era davvero privilegio di pochi eletti che potevano metaforicamente sollevare il velo dell’ignoranza e contemplare la Verità. Sicuramente un “eletto” era il committente, il principe di Sansevero, uomo di straordinaria cultura e innata curiosità, discendente di Carlo Magno e, si diceva, nientemeno che maestro di alchimia di Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Franco Balsamo, noto con il nome di Alessandro, conte di Cagliostro o più semplicemente Cagliostro. E proprio l’alchimia divenne la spiegazione più ovvia che gli estimatori del Cristo si diedero di fronte alla meraviglia e allo stupore: cosa, se non un procedimento alchemico di cristallizzazione del marmo avrebbe potuto rendere così leggero, trasparente e impalpabile il velo?

La leggenda del velo, però, è dura a morire. L’alone di mistero che avvolge il principe di Sansevero e la “liquida” trasparenza del sudario continuano ad alimentarla. D’altra parte, era nelle intenzioni del di Sangro – in questa come in altre occasioni – suscitare meraviglia: non a caso fu egli stesso a constatare che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori.

Oggi sappiamo che non c’è nessuna alchimia e che il velo è scolpito in un unico blocco di marmo insieme al corpo sottostante. L’unica alchimia possibile si chiama talento: la grande magia che da sempre avvolge la statua è spiegabile solo in termini di indescrivibili emozioni.

Leggenda vuole che il principe di Sansevero avesse fatto accecare il Sanmartino per impedirgli di scolpire un’opera di eguale bellezza. La realtà invece ci tranquillizza: Sanmartino continuò a scolpire fino a 80 anni… anche se non fu mai più in grado di replicare niente di simile.

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