Molfetta da brividi, storie e macabre leggende: gli spettri di Torre Navarino

Tra le antiche pietre di questo maestoso complesso in rovina e dal fascino macabro la storia, il mistero e la leggenda corrono di pari passo da secoli

Molfetta, Casale di Navarrino. Scorcio delle due torri gemelle con recinto e colombaia. Ph. Dario Lazzaro Palombella

Spettri, leggende, luoghi accomunati da un irresistibile fascino macabro dove aleggiano da secoli storie incredibili e di grande mistero. Conosciamo insieme la Molfetta da brividi, dove tutto può ancora accadere.

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Dietro alle dicerie popolari e ai fatti di cronaca più cruenti di tutte le epoche storiche, spesso si celano racconti di grande mistero. Molfetta è ricca di questi posti incredibili, di leggende che fanno ancora venire i brividi.

Tra i luoghi della Molfetta misteriosa c’è sicuramente la “Torre di Navarino”. Tra le sue antiche pietre, la storia, il mistero e la leggenda corrono di pari passo da secoli.

Torre di Navarino, conosciuta anche come Casale Navarrino è un luogo misterioso, probabilmente uno dei più interessanti dell’intera regione Puglia. Il casale è il più lontano dal centro urbano, dista infatti da Molfetta oltre 12 chilometri e si trova al vertice dei territori di Molfetta, Bisceglie e Terlizzi.

Il nome Navarino è di origine incerta poiché quella zona verso Terlizzi viene denominata Masseria di Annamaria, verso Bisceglie di Navario e a Molfetta di Navarino.

Il toponimo “Navarino” appare per la prima volta nel 1582. Il nome della contrada ricorda la regione Navarra della Spagna della quale, forse, doveva essere oriundo don Ferrando Briones Yspanus, marito di Costanza Gadaleta, figlia di Giacomo, proprietario di un fondo rurale ubicato in questa zona.

Ferrante fu uno dei sei ispanici che stabilirono la loro dimora nella nostra città dopo l’uscita delle truppe di occupazione Francesi e la riconsegna della stessa agli spagnoli il 6 dicembre 1529. Morto tra il 1556 ed il 1561, come rivela il cognome, era nativo di Briones, città situata sulla frontiera tra Navarra e Castiglia (oggi nella provincia autonoma di La Rioja). Nel periodo 1535-42 don Ferrante possedeva una «pecia (de) terra maclosa q(ue) d(icitu)r d(e) la Nera» situata nella zona limitrofa a quella che poi sarà chiamata Navarino (1582) o Navaria (1635).

In epoca successiva, la «petia de la Nera» divenne proprietà della famiglia Gadaleta (prima di Francesco, nel 1552, poi di suo figlio Galante, nel 1556). Nel medesimo periodo (1554-56) il notaio Galante Gadaleta, poi barone di Binetto, in questa zona possedeva terreni seminatori con una “umile costruzione agricola” (lamia). L’8 febbraio 1598 i maestri muratori Natale de Mastro, Andrea di Corato, Vincenzo de Domenico di Bitonto e Vito de Scalera di Bitritto promisero a Cesare Gadaleta di costruire una sopraelevazione sulla torre già iniziata (preesistente ?) a Navarino.

Nel 1687 fu edificata una nuova cappella chiamata di San Francesco di Paola, costruita sulla strada vicinale, prima di entrare sul viale d’ingresso della masseria. L’anno seguente (1688) la «massaria co(n) casamenti … in loco detto Navarino, e chiamati la torre di Navarino» divenne di proprietà di Francesco Gadaleta.

Nel 1699, la visita di monsignor Pompeo Sarnelli, certifica che l’altare della cappella ivi presente aveva una piccola icona di san Francesco di Paola, mentre a destra dello stesso (altare) c’era un’icona maggiore con le immagini di santa Maria del Monte Carmelo, a destra s. Antonio, a sinistra s. Biagio.

Nel 1641 la struttura era indicata come «masseria nu(n)cupata di Navarino» ed era di proprietà di Giuseppe Gadaleta. Sei anni dopo (1647) la «massaria [situata] dove si dice Navarino» era dotata di una cappella dedicata in onore di S. Maria del Carmine (Notizie storiche riportate nell’articolo di Corrado Pisani, Masseria in contrada Navarino pubblicato il 14 dicembre 2017 dalla rivista “L’altra Molfetta”)

Molfetta, complesso di “Torre Navarino”. Palmento a tre archi

Il primo nucleo del complesso di Navarino, risalente alla metà del XVI secolo, edificato in più fasi dalla famiglia Gadaleta, forse a partire dal 1554, comprende il casale con cappella, il palmeto e due torri gemelle con recinto e colombaia.

Il fabbricato principale, di base rettangolare, alto 10 metri su due livelli, dotato di quattro finestrelle provviste di inferriata e tre ingressi, presenta a piano terra quattro vani, l’accesso ai sotterranei, un focolare e un pozzo. Fino a qualche decennio fa, sull’entrata centrale, insisteva una targa (trafugata da ignoti), scolpita per ricordare la terribile esecuzione di alcuni fuorilegge avvenuta nei pressi della masseria, ma di questo vi parleremo fra poco. L’interno del piano terra è un ambiente voltato a botte a sezione ellittica. Due nicchie scavate sotto la scalinata che porta al primo piano, fanno presumere che qui, probabilmente, ci fosse un forno. Una di queste nicchie, con calotta, forse era destinata alla cottura delle pietanze mentre quella inferiore forse era usata per deposito di legna.

Una scala in pietra conduce al piano superiore, dotato di due grandi focolari, dal quale si accede alle terrazze ai lati della costruzione e al tetto, provvisto di garitte pensili, barbaramente deturpate. In alto a destra è presente anche una vedetta. La masseria, infatti, unisce tipici elementi abitativi e accorgimenti vari per difendersi dai nemici, come tante altre “torri” presenti sul territorio edificate in quel periodo storico.

Sono addossati su un lato del casale una stalla e un deposito comunicante all’esterno con una grande cisterna. Sul lato opposto si trova una cappella, ormai priva del campaniletto a vela, fatta costruire nel 1763 da Francesco Saverio Gadaleta, in quanto la vecchia cappella, sotto il titolo di San Francesco da Paola «era angusta e stava per crollare». Nella cappella è visibile un affresco completamente deturpato, un altare distrutto probabilmente da persone in cerca di (inesistenti?) “tesori” nascosti, delle aperture sul muro che ricordano, per forma e dimensioni, nicchie in cui venivano poste anticamente le acquasantiere. Purtroppo, l’azione dei vandali, ben visibile ovunque, nel corso degli anni ha contribuito a rendere quasi irriconoscibile un pezzo di storia che andrebbe invece tutelata e valorizzata.

L’edificio è circondato da un alto muro di recinzione che cingeva il giardino dei Gadaleta. Difronte al casale si trova il vecchio palmento dalle ampie arcate, la vasca destinata alla pigiatura dell’uva e alla fermentazione dei mosti, un ambiente col soffitto basso, tipico delle neviere: forse qui durante l’inverno veniva raccolta la neve, da conservare e utilizzare nella stagione calda per tenere al fresco il cibo. Ancora più dietro, un fabbricato in pietra con due torri a cupola con pinnacoli, a base quadrata, alte 10 metri e a tre piani, destinate alla vigilanza dell’agro circostante. Le due torri sono collegate da una singolare colombaia. Nel periodo 1818-1820, il comprensorio di Navarino era dotato di un centimolo (molino), un forno, una panetteria, due stanze (una chiamata panetteria e l’altra dirimpetto, sotto il palombaro).

Ultimi esponenti della famiglia Gadaleta a possedere questa masseria furono: Giulio Gadaleta (m. 11 novembre 1859), sua moglie Clementina Rubini (m. 1880) ed i loro figli.

Molfetta, Casale Navarrino. Le due torri gemelle a base quadrata destinate alla vigilanza dell’agro circostante e collegate da una singolare colombaia.

Pur se nascosto dagli ulivi secolari e ormai parzialmente diroccato a causa del trascorrere inesorabile dei secoli ma anche per l’incuria dell’uomo che non riesce ancora pienamente a tutelare e preservare questi veri monumenti del passato, il complesso di Navarino si presenta ancora oggi al visitatore maestoso e truce nello stesso tempo. Questa antico complesso rurale fa parlare ancora di se, a distanza di secoli, non solo per la sua imponente architettura, ma anche per le antiche storie e leggende ad esso legate.

Torre di Navarino è davvero un luogo misterioso dove rumori sinistri, foto inspiegabili e ripetute apparizioni di fantasmi, attirano appassionati e ricercatori del paranormale. Sul luogo, aleggiano da secoli  leggende riguardanti presunti spettri, visti più volte da diverse persone. Prima di percorrere il sentiero sempre insidioso del paranormale, dei fenomeni inspiegabili o presunti tali, che sarebbero stati riscontrati anche in anni recenti, in questo luogo dalla bellezza che intriga anche per il suo fascino macabro e sinistro, è utile riscoprire la storia di un fatto di cronaca legato questo particolare casale e del suo orrendo epilogo!

Molfetta, Casale di Navarrino. Edificio principale con annessa chiesetta.

Come già vi abbiamo accennato, questo luogo è legato ad una triste storia e al suo tragico e atroce epilogo. Se ne potrebbe trarre davvero una sceneggiatura per un film, ma non possiamo escludere che prima o poi questo non accada. La storia, manco a farlo apposta, inizia come un classico film horror.

Tuoni, lampi e una pioggia scrosciante agitano la notte del 26 marzo 1746 quando l’abate Gregorio Gadaleta, fratello del defunto Giuseppe e zio dei proprietari (fratelli Francesco Saverio, Biagio, Giulio e Giuseppe postumo), che sta per andare a dormire nel piano alto della sua dimora, sente qualcuno bussare alla porta. Apre e si ritrova davanti tre uomini, bagnati dalla pioggia, che si presentano come pellegrini in cerca di un alloggio dove poter passare la notte. Gregorio li accoglie nella sua casa con molta tranquillità, ma sarà questo un gesto di cui si pentirà amaramente. Nel giro di pochi istanti sente delle mani che lo tengono immobilizzato mentre i presunti viandanti mettono a soqquadro le stanze della dimora arraffando tutto ciò che di prezioso trovano prima di fuggire. L’abate, dopo essersi liberato, ancora impaurito, cerca di scorgere nell’oscurità i suoi aggressori dei quali però non c’è più traccia. La banda, si saprà dopo, era composta in totale da nove uomini, capeggiati da Marco Cariati, Angelo Arcieri e Carmine Piturro, i materiali assalitori che rubarono dalla masseria tutta la roba di valore (argenteria, monete e altri oggetti) per un totale di 2.000 ducati.

È chiaro che i tre pellegrini non erano altro che briganti che avevano approfittato della generosità del religioso per derubarlo delle sue ricchezze. Un fatto che Gadaleta non vuole far passare impunito, infatti denuncia il tutto al Tribunale del Regno, la Regia Udienza di Trani, che avviò subito le indagini ma nel breve tempo non venne a capo di nulla. Dopo mesi, la consegna spontanea di alcuni di essi, portò alla cattura di tutti i componenti della banda.

Il 27 gennaio 1747, dopo un processo sommario, la Sacra Regia Udienza di Trani decretò che solo tre ladri erano colpevoli e che, pertanto, essi dovevano «morire sulle forche, e che l’esecuzione si facesse nel luogo del delitto; e che dopo morti i loro cadaveri si dividessero in pezzi, e si sospendessero agli arbori vicini».

Re Carlo in un ritratto di Giuseppe Bonito

Il 14 maggio 1749 la Real Camera di Santa Chiara, supremo tribunale la cui competenza territoriale si estendeva a tutto il Regno di Napoliconfermò il verdetto della Regia Udienza di Trani.

Un furto seguito dalla condanna a morte e dal macabro rito dello squartamento del cadavere del condannato. Una cosa orrenda e impensabile oggi nei paesi civili. A quei tempi, però, non era così. Durante il periodo vicereale durato fino al 1734, la condanna a morte veniva dispensata con una facilità impressionante ed i reati per i quali era prevista erano l’omicidio, il tentato omicidio, il furto, la pedofilia e l’omosessualità, le dichiarazioni diffamatorie, la falsificazione di monete e di titoli bancari, il proferimento di bestemmie contro immagini sacre, il possesso di armi ed ovviamente il tradimento alla fede giurata, le nuove ribellioni, la congiura e la lesa maestà. Per i soldati era prevista anche per la  diserzione, ed inoltre, quando tra loro si era verificato un episodio ritenuto delittuoso e non si riusciva a trovare il colpevole, tra gli indiziati si procedeva per sorteggio. La macabra usanza fece decine di vittime soprattutto durante la reggenza di Carlo di Borbone.

In quel periodo storico si giustiziava talvolta nei luoghi dove era stato commesso il reato, questo a maggior soddisfazione per le famiglie delle vittime. Il popolo accorreva sempre numeroso, mosso da curiosità, talvolta impietosito, altre ancora per schernirsi del morente. E infatti, il 4 luglio del 1749, la sentenza di morte contro i tre colpevoli dell’aggressione e del furto operato in danno dell’abate Gregorio Gadaleta, fu eseguita in prossimità del luogo del misfatto.

Di fronte il casale, in un terreno situato nel territorio di Bisceglie, furono erette le forche scegliendo tre alberi di ulivo per l’esecuzione dell’impiccagione. Molti giunsero da altre masserie sparse nell’agro e città vicine per assistere al macabro spettacolo. A eseguire la sentenza fu il «maestro di giustizie» (il boia) del medesimo Tribunale di Trani. I tre furono impiccati uno per volta. Ciò trova conferma nel fatto che tra il materiale utilizzato sono presenti delle «lenzola in coprimento dell’afforcati affinché non siano visti dall’altri afforcandi».

A sentenza eseguita, i cadaveri dei tre uomini furono tagliati in “quarti” ed i pezzi furono sospesi su alberi prossimi alla masseria, alla strada di Giovinazzo, a quella di Bisceglie e portati sino a Barletta. A Molfetta, la testa del Cariati fu appesa all’entrata del complesso di San Domenico, un luogo certamente non casuale, quello della “Santa Inquisizione”, appannaggio dei frati domenicani.

Il giorno seguente, a ricordo del tragico evento e come monito per altri, i fratelli Gadaleta fecero collocare sul posto un’epigrafe (di cui conosciamo il testo ma che non è più visibile, come detto, perché trafugata da ignoti nel 1998): “Il 4 luglio 1749 re Carlo III di Borbone fece in loco Alberini impiccare tre ladroni: M. Arceri, A. Cariati, C. Piturro, a tre alberi di ulivo”. Giustizia era stata fatta, ma da allora quel posto non sarebbe stato più lo stesso, tanto da meritarsi il nome di “Macchia delle Forche”.

Una vecchia foto di Torre Navarino

La vicenda dei tre morti impiccati (e poi squartati!) ha lasciato un segno indelebile, fino ai giorni nostri. Torre di Navarino divenne presto luogo sinistro, infestato dagli spiriti maligni, teatro di innumerevoli eventi inspiegabili. Oltre alle voci registrate e alle altre evenienze paranormali riscontrate da alcuni ghost hunters che hanno effettuato delle ricerche sul luogo in tempi recenti, una storia in particolare merita di essere raccontata. Un turista in vacanza in Puglia, durante un’escursione tra gli uliveti secolari, si imbatte in una struttura fatiscente, coperta da sterpaglie e in evidente stato di degrado; una struttura che non nasconde le pareti deturpate da scritte di ogni genere, priva di porte e all’interno della quale vige ovunque un vero e proprio scempio. Nonostante l’aspetto poco accogliente, l’uomo decide di addentrarsi in quella che un tempo era stata una dimora sfarzosa. In una delle stanze poste al primo piano, il visitatore scorge un caminetto molto particolare e non resiste alla tentazione di scattare qualche foto. Ebbene, quello che apparirà in seguito sull’immagine è sconcertante: si nota chiaramente la sagoma di un uomo vestito elegantemente, con giacca e camicia. Questo è solo uno dei tanti episodi inspiegabili legati a quel luogo. Secondo alcuni si tratterebbe dello spettro del vecchio proprietario dell’immobile, molto legato alla costruzione e, forse, intento a proteggerla.

Nei sotterranei dell’edificio, inoltre, alcuni affermarono di aver visto un’ombra nera, scambiata per la sagoma di un uomo, scomparire letteralmente nel nulla, lasciandoli in uno stato di profonda paura.

Comunque la si pensi, sui fenomeni paranormali o sugli accadimenti quanto meno inspiegabili, una cosa è certa: la storia di questo posto, quella vera e documentata, è già di per sé abbastanza macabra. E’ in posti come questo che è possibile immaginare di assistere a strani fenomeni. Infatti, non vogliamo affatto dimenticare che esiste anche l’autosuggestione che ci fa vedere cose che in condizioni normali non vedremmo. Restiamo scettici, ma perché vogliamo approfondire l’argomento e scoprire sempre nuove storie da raccontare, spesso segnalate dai nostri lettori.

Il luogo, inevitabilmente, negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione degli appassionati di leggende, misteri e ghost tour, e non poteva essere diversamente. Qui gli ingredienti dell’horror ci sono tutti a cominciare dal luogo, abbastanza tetro e dalla storia dei tre impiccati e squartati che aleggia ancora tra le mura in rovina di questa antica masseria fortificata nelle campagne molfettesi. Stando all’Associazione Italiana del Mistero, in questo luogo ci sarebbero ancora gli spettri dei tre uomini impiccati e poi squartati nel lontano 1749. Non solo. Stando a quanto registrato da alcuni ghost hunters, questo posto è infestato da alcune voci paranormali. Che si tratti dei tre briganti?

In Scozia, probabilmente, un luogo simile a questo, con la sua incredibile (e orribile) storia, e il suo fascino macabro, sarebbe stato già restaurato, magari pure trasformato in albergo per gli amanti dei ghost tours.

Un’ultima cosa però la vogliamo dire, ad epilogo di questa incredibile storia: alcuni resti mortali di quei poveri sventurati (impiccati e squartati) forse sono ancora sparsi in quel territorio. Se per quelli che non credono ai fenomeni paranormali, ciò non significa nulla, al contrario per quelli che credono all’esistenza dei fantasmi è già tanto per ritenere che gli spettri dei condannati infestino ancora il Casale di Navarrino e il territorio circostante.

Molfetta, Torre di Navarino. Ph. Michele Allegretti
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