La “notte delle bottiglie”: il rito della salsa fatta in campagna

Un’usanza che resiste ancora al tempo e soprattutto alle produzioni industriali. Ricordi di quando intere famiglie si riunivano in campagna per preparare le “bottiglie” di salsa per l’inverno. Da un racconto di Angelo Boccanegra

Oro rosso, il rito della salsa a Molfetta

In passato, quasi tutte le famiglie molfettesi, a fine estate, preparavano quella che in dialetto veniva chiamata la “sàalze ìnd’a le bottìglie” (salsa nelle bottiglie) e la “chenzèrve” (la conserva di pomodoro). La “sàalze” per l’inverno  veniva fatta quasi sempre in campagna ed era anche un momento di aggregazione per intere famiglie. Erano quelli, giorni di grande attività, ma anche di allegria collettiva, tutti dovevano mettersi all’opera, nessuno escluso, e ognuno aveva un compito preciso.

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I pomodori dovevano essere di prima scelta, e selezionati in modo da eliminare eventuali esemplari ammaccati. Andavano poi lavati accuratamente e fatti scolare di tutta l’acqua, dopo averli collocati in una cesta ricoperta al fondo da un telo sottile per filtrare l’acqua. I pomodori lavati, dovevano poi essere immersi in acqua bollente. Dopo la cottura in grandi “cazzarole” (enormi pentoloni), ormai rotti, venivano raccolti con un grosso mestolo perforato e collocati in una vasca, anch’essa forata, grazie alla quale perdevano l’ulteriore acqua residua.

La fase di colatura, accompagnata con l’apertura dei pomodori, anticipava quella dell’estrazione della polpa e dell’espulsione di semi e buccia grazie all’utilizzo di una macchinetta a manovella. La “sàalze” veniva poi raccolta in un grande recipiente di terracotta e successivamente versata in bottiglie, il più delle volte di birra, riciclate e lavate accuratamente, sigillate poi con tappi a corona oppure di sughero legati con lo spago per farle resistere a quella che era forse la fase più delicata e rischiosa della preparazione: “u vùgghìe”. Le bottiglie venivano collocate in enormi recipienti e portate a temperatura di ebollizione. Venivano disposte in modo da non creare spazi tra una bottiglia e l’altra, andavano incastrate bene tra loro in vari strati sovrapposti per evitare che sballottassero e si rompessero durante la fase di bollitura. Per evitare che si verificassero urti, sul fondo di questi grandi tegami, si posizionavano poi degli stracci. Insomma, si faceva di tutto per evitare che le bottiglie si rompessero nel corso di questa delicatissima fase. Serviva un’abilità non da poco per collocare bene le bottiglie prima di farle bollire per circa 2 ore. Così si sterilizzava la salsa e si creava il sottovuoto. Alla fine dell’operazione, spento il fuoco, le bottiglie venivano lasciate sempre all’interno di queste grandi pentole per un giorno fino al loro completo raffreddamento. Era quella, la “notte delle bottiglie”, una notte di ansia e preoccupazione. Scampato il pericolo sempre in agguato che ogni tanto qualche bottiglia scoppiasse, colorando di rosso tutta l’acqua, durante la bollitura, occorreva adesso attendere che le stesse passassero indenni, tutte o in gran parte, l’intera nottata: non era escluso infatti che alcune potessero esplodere anche durante la delicatissima fase di raffreddamento notturno.

Oggi è diventato un prodotto di lusso, proprio per la sua lunga preparazione che richiede impegno e amore. In passato era una sorta di rito che andava in scena d’estate sulle terrazze delle case. Tra gli ingredienti indispensabili, infatti, c’è il sole: la mattina le terrine di creta che contenevano la ‘conserva’ rosso fuoco venivano esposte ben protette da una zanzariera. La sera venivano messe al riparo, per preservare il preparato dall’umido. Un gesto fatto ogni giorno seguendo il ritmo dell’alba e del tramonto. Per settimane, si curava la “conserva”, si girava con un cucchiaio di legno mentre si pregava che tutta quella ‘fatica’ non fosse vana! In questa foto degli anni ’50 si vede una bambina intenta nel compito di girare con un cucchiaio di legno la “distesa di conserva”. I bambini erano però soprattutto gli “addetti alla sorveglianza”: dovevano evitare che si avvicinassero mosche e insetti vari durante il giorno.

Terminata questa complessa procedura, si posizionavano queste bottiglie in cassette di legno, per consentirne il trasporto alla casa del proprietario. Nelle case di una volta c’erano molti stipi a muro e questi erano davvero dei forzieri di bontà pieni di conserve e di tante, tantissime bottiglie di salsa che servivano per preparare le pietanze per l’inverno e, sopratutto, il ragù domenicale.

In passato, si produceva anche la conserva di pomodoro, la “chenzèrve”, che si otteneva stendendo la salsa su grandi tavolieri in legno per farla essiccare al sole, concentrandola ulteriormente e privandola di acqua residua. Alla salsa, in passato, si aggiungeva spesso un cucchiaio di conserva che insaporiva in modo formidabile il sugo domenicale.

Una volta, il sugo per l’inverno, era solo quello delle “bottiglie” di salsa fatta in casa. Quello sì che era un sugo genuino. L’estate, però, si preparava il sugo fresco con i pomodori appena raccolti e anche quello era una delizia.

Preparare la salsa di pomodoro in casa è una tradizione che a Molfetta resiste ancora, molte famiglie si riuniscono ancora in campagna attorno alla bollitura delle bottiglie piene di oro rosso. La tradizione della salsa di pomodoro fatta in casa resiste ancora alla modernità e ai modernismi. Nei decenni passati però la maggior parte delle famiglie aveva ogni anno e in questo periodo un appuntamento fisso con il pomodoro che, a seconda delle situazioni, era atteso come giorno di festa o, al contrario, come incombenza ingombrante nelle ferie di agosto. Nell’infanzia di molti di noi, c’è questo ricordo di momenti concitati, di operazioni faticose e meticolose, di condivisione di giornate in famiglia e di occasioni di racconto. Al di là dei discorsi di convenienza economica e di genuinità del pomodoro conservato in estate per l’inverno (considerata anche la disponibilità di pomodoro fresco tutto l’anno), la conserva del pomodoro e, soprattutto, del pomodoro crudo in barattolo, resta un rito che in qualche caso si continua a mantenere per collegare il passato remoto dei nostri nonni e prossimo della nostra infanzia con i ricordi da costruire per i nostri figli.

Nonostante negli ultimi anni si sia registrato un calo di quello che è un vero e proprio rito, la preparazione della salsa di pomodori a Molfetta è ancora oggi un momento di aggregazione delle famiglie. Oltre alla necessità di produrre con metodi tradizionali la salsa, c’è proprio il piacere di riunirsi in campagna, soprattutto, per stare insieme e fare le scorte per tutto l’anno di uno dei principali beni di prima necessità. Molti sono contrari a quest’usanza, considerata come antica e sgradevole, ma in realtà la tradizione riesce a resistere al tempo e ai pregiudizi, proprio perché non c’è nessun pregiudizio che vieti alla famiglia di riunirsi e soprattutto di mangiare dell’ottima salsa fatta in casa che non ha niente a che invidiare alle grandi aziende mondiali. Insomma, viva la salsa della nonna!

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