Mestieri del passato: l’arrotino. Storia e curiosità

Era l’artigiano che si occupava della molatura di quelle lame non più taglienti. Un mestiere quasi del tutto scomparso. Da un racconto di Angelo Boccanegra

L’arrotino di una volta con la sua bicicletta

In passato non si buttava via niente, qualsiasi cosa poteva, anzi doveva essere recuperata, qualsiasi attrezzo mal funzionante veniva aggiustato, rimodellato e riusato. Questa buona e sana pratica di un tempo, favoriva la proliferazione di tanti mestieri, che oggi definiamo “antichi”, perché quasi del tutto scomparsi.

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Nella maggior parte dei casi, questi “aggiustatori”, erano ambulanti che giravano già di prima mattina la città di una volta, richiamando l’attenzione delle donne con tipici richiami che permettevano di identificare velocemente, prima del loro arrivo, la specifica attività svolta. C’era “u conzasiegge”, che riparava le sedie, “u ‘mbrëllàre”, che riparava gli ombrelli, e c’era anche “u mulafùrc” (dal vernacolo “mola forbici”), che affilava coltelli, forbici e forbicine, falce e accetta. Tanti erano gli attrezzi anche di lavoro che necessitavano di ciclica molatura in passato, perché molti un tempo erano i lavori manuali. In passato l’arrotino spesso svolgeva il proprio mestiere spostandosi con una sorta di biciclo-carretto dotato di una grossa ruota di legno, rivestita da un cerchione di ferro; il carretto, una volta giunto sul luogo di lavoro, veniva letteralmente ribaltato su sé stesso e si trasformava nello strumento di lavoro. Alla ruota veniva agganciato un pedale con vari snodi, veniva fissata la cinghia di trasmissione del movimento alla mola e su una parte sporgente del carretto, l’arrotino fissava poi un secchiello con dell’acqua che sgocciolava sulla mola mediante un piccolo rubinetto dosatore, con funzioni di lubrificante.

Per arrotare un utensile, l’arrotino imprimeva alla ruota un movimento ben ritmato e continuo e con abili gesti delle mani lo passava sulla mola fino a che la lama non diventava tagliente. In tempi più recenti, il tipico carretto si è trasformato in una bicicletta, che era una vera e propria piccola bottega ambulante, sul cui manubrio era applicata una ruota in pietra, che per girare era collegata con delle cinghie ai pedali.

L’arrotino pedalava da fermo, con la bicicletta sollevata da terra da un altro attrezzo e così faceva girare vorticosamente quella ruota di pietra sulla quale molava le lame dei coltelli. Ogni tanto si vedevano scintille, mentre l’arrotino operava e per noi ragazzini di una volta era anche quello uno spettacolo. La bicicletta era dotava anche di una borraccia di acqua che serviva per raffreddare i metalli. Al richiamo squillante dell’arrotino le donne di un tempo accorrevano in strada per affilare le lame.

Come tutti i mestieri di un tempo, con l’arrivo della tecnologia, anche questa attività ambulante è quasi del tutto scomparsa, almeno con queste modalità, portandosi dietro innumerevoli ricordi di una Molfetta che non c’è più e anche un po’ di bellissimi ricordi della nostra fanciullezza.

Ogni tanto capita ancora di sentire dal megafono di un camioncino che gira per Molfetta «donne è arrivato l’arrotino!». Esiste ancora la preziosa mola per affilare forbici e coltelli azionata dalla forza meccanica e non più da quella fisica dell’arrotino. E’ scomparsa però quella figura quasi folkloristica e per certi versi familiare dell’arrotino di una volta e, con essa, è scomparso il bel mondo antico.

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