I «Vampiri di Trani». Dal libro del 1739 alle tombe scoperte nel 2001

Due tombe, per quattro defunti: furono inumati senza onoranze funebri e in posizione prona, con un macigno addosso. L’inquietante ipotesi degli antropologi: erano reietti che non dovevano assolutamente tornare tra i vivi …

Il sole che tramonta dietro la cattedrale di Trani in questa bellissima cartolina in bianco e nero degli anni ’50. Un’immagine che evoca il mistero con la luce del giorno che degrada e le tenebre che incombono.

La nostra passione sul paranormale, che ha da sempre avvolto e affascinato la nostra cultura e il nostro folklore popolare, ci ha fatto scoprire quasi casualmente un’altra storia davvero incredibile. A caccia di racconti terrificanti della “Molfetta da brividi”, di storie di grande mistero, leggende legate a luoghi che sembrano scenari ideali per l’ambietazione di film horror (come la Masseria di Navarrino dove nel 1749 furono impiccati e squartati tre condannati dalla Sacra Regia Udienza di Trani), ci siamo imbattuti in una storia davvero raccapricciante: quella sui «Vampiri di Trani». Non abbiamo resistito alla tentazione di approfondire questa storia, intrigante e inquietante al contempo, benché ambientata in un’altra città, non molto lontana da noi però, pur essa ricca di storie incredibili da raccondare. 

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Se volessimo seguire in Puglia un ideale tour dell’orrore, certamente dopo Molfetta, con le sue storie di spettri e malombre (melóbrë), di megere e fattucchiere (mesciàrë“), di spiritelli notturni (móneceiddë“) e lupi mannari (“lepómene”), di esseri diabolici e terrificanti, dovremmo far tappa sicuramente a Trani, città splendida anche per i suoi scenari da romanzo gotico, ambientazioni quasi perfette di storie misteriose e macabre, come l’ipogeo di San Leucio, sotto la cattedrale, dove in tempi relativamente recenti sarebbe apparso, un fantasma che avrebbe terrorizzato i turisti, causando loro anche malori. Questa leggenda fece tanto scalpore che diversi studiosi italiani si occuparono del caso. Tutt’oggi è possibile rintracciare video ed articoli inerenti alla specifica vicenda, una leggenda che sembrerebbe essere diventata, in pochi anni, tra le più famose d’Italia.

Giuseppe Davanzati, Dissertazione sopra i vampiri, 1789

Pochi sanno che prima di Bram Stoker e del suo Dracula, prima dei vampiri cool di Twilight, a parlare di non morti fu un prelato pugliese. Pochi sanno che a Trani fu redatto nel 1739 uno dei primi trattati sui vampiri, Dissertazione sopra i Vampiri, il cui autore fu nientemeno che l’arcivescovo di Trani, Giuseppe Antonio Davanzati (Bari, 29 agosto 1665 – Trani, 16 febbraio 1755), patriarca cattolico, intellettuale e studioso, colto e lucidissimo. In questo volume il fenomeno vampirico viene enucleato in tutte le sue forme e sfaccettature. 

Durante gli ultimi anni della sua vita Davanzati compose numerose opere, di cui solo una parte pervenuta anche grazie all’opera di catalogazione e all’interesse del nipote, Domenico Forges Davanzati. A dimostrazione del sempre vivo interesse verso la scienza, Davanzati compose alcuni trattati su questo tema: è del 1738 una Dissertazione sulle comete, purtroppo andata perduta, mentre nel 1740 scrisse una Dissertazione sulla tarantola in Puglia.

Il trattato più famoso, però, rimane la Dissertazione sopra i vampiri del 1739 che circolò manoscritta durante la sua vita e venne molto apprezzata anche da papa Benedetto XIV, a cui Davanzati inviò una copia nel 1743. Il testo fu però pubblicato per la prima volta solo nel 1774 dal nipote Domenico Forges Davanzati.

Perché l’arcivescovo di Trani sentì il bisogno di scrivere un tale trattato? E’ il 1739, quando all’orecchio di Davanzati, giunge notizia delle dilaganti epidemie di vampirismo, del “morbo o la strage de’ vampiri” diffusosi nel suo tempo. Storie che provenivano dai Balcani e dalla Germania, sfociate nell’isterismo collettivo. I contorni di queste vicende, benché leggendari, risultano nel suo libro suffragati da testimonianze accreditate.

In quel periodo storico in giro per l’Europa non si parlava d’altro. In Germania, Francia, Italia e Inghilterra giungeva voce che nelle terre più ad est dei domini asburgici i morti potessero risvegliarsi e ritornare con i propri corpi dai vivi. Un testimone del tempo ricorda: «Ritrovandomi anni sono in Roma in qualche confidenza presso il signor cardinale Schrattembach, vescovo di Olmutz, di felice memoria, questi una sera mi fece con molta riserva sapere di avere in quella posta ricevuto una distinta relazione dal suo concistoro di Olmutz, nella quale que’ signori offiziali gli davano notizia come il morbo o la strage de’ vampiri era molto dilata nella provincia della Moravia sua diocesi […]»

Con queste parole si apre la Dissertazione sopra i vampiri di Giuseppe Davanzati, arcivescovo di Trani e protagonista di una lunga lotta nella periferia del Regno di Napoli contro antiche pratiche ormai giudicate superstiziose e la moltiplicazione di feste religiose che, allontanando i già miseri contadini dai campi, talvolta ne decretava la fame. Vi si racconta di morti che, all’indomani della sepoltura, riappaiono per nutrirsi di sangue umano fino alla morte delle vittime, destinate a diventare anch’esse vampiri. Veniva così riesumato il cadavere del presunto carnefice che, secondo le cronache del tempo riportate dal Davanzati, era immobile e morto, ma, anche a quaranta giorni dal trapasso, «il suo corpo era ben colorito, le sue unghia, i suoi capelli, la sua barba si erano rinnovati; egli era tutto ripieno di un sangue fluido, scorrente per ogni parte del corpo sul lenzuolo, in cui era involto».

La procedura ricorrente per uccidere il vampiro consisteva nel trafiggergli il cuore con una lama ben affilata che, un attimo dopo, sarebbe servita per decapitargli il capo, destinato al rogo. Bisogna pensare che il fenomeno dilagò così tanto da spingere alcuni governi a promulgare leggi contro le riesumazioni non autorizzate. Ed emblematico è il caso dell’Inghilterra dove, nel 1823, in piena rivoluzione industriale, fu varato un provvedimento legislativo per impedire che venisse perpetrata violenza sui cadaveri.

Trani, Cattedrale e antica piazza pubblica. Acquaforte di Jean Louis Desprèz del 1778 contenuta nell’opera “Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile” (Paris, Lafosse 1781-1786) dell’abate Jean-Claude Richard de Saint-Non, meglio noto come Abate di Saint-Non, o Abbé de Saint-Non (Parigi, 1727 – 25 novembre 1791).

Pubblicato postumo nel 1774 a cura del nipote Domenico Forges Davanzati, quindi in seconda edizione nel 1789, l’opuscolo era stato redatto dall’arcivescovo anni prima, «quando, rinnovandosi nel 1739 le apparizioni de’ vampiri in Germania, egli per soddisfare alla curiosità di alcuni suoi amici si pose a scrivere una Dissertazione su questo fenomeno, la quale, comeché non mai volle stampare cosa alcuna, pure si divolgò tosto così manoscritta non solo per l’Italia, ma di là da’ monti»

Parole encomiastiche, queste, che dovrebbero tuttavia avere un fondo di verità: se, come sostiene il nipote, è vero che «il Burmanno diceva ad un nostro regnicolo ch’egli non aveva letto cosa migliore su questo soggetto», la memoria dovette essere giunta in Olanda già prima del 31 marzo 1741, data di morte di Pieter Burman (il Vecchio), a cui il testimone sembrerebbe riferirsi. È d’altro canto vero che riferimenti espliciti ad essa mancano prima della sua pubblicazione. Si può dunque ipotizzare che la conoscenza che, perlomeno fino agli anni settanta del XVIII secolo, ne ebbero i dotti fosse non trascurabile ma abbastanza limitata, ristretta cioè a circoli piuttosto circoscritti.

Come che fosse, erano ormai alcuni decenni che si parlava di vampirismo. Ma che cosa era successo nella diocesi Olomouc di così grave da preoccupare Schrattenbach e incuriosire Davanzati? Informa Gerhard van Swieten, archiatra dell’Imperatrice d’Austria Maria Teresa: «Nell’anno 1723 fecero abbruciare il corpo d’un uomo 13 giorni dopo la morte, e nella sentenza si allega per ragione che sua nonna non visse in buon odore nella comunità. L’anno 1724 fecero ardere il cadavere d’un uomo 18 giorni dopo la morte, perché egli era parente del precedente. Bastava essere del parentado d’un preteso vampiro, e allora il processo era bello e fi nito. Si abbruciò il corpo d’un uomo 2 giorni dopo la sua morte per questa ragione senza altra testimonianza, cioè perché il cadavere conservava ancor buona cera dopo la morte; e perché le articolazioni erano altresì fl essibili […]. Sopra questo bel fondamento fece il concistoro d’Olmutz abbruciare a 23 aprile 1723 [sic, in realtà 1731] nove cadaveri, tra’ quali v’ebbe sette di piccioli fanciulli, a motivo che si credevano infetti di un vampiro sotterrato prima di essi nel medesimo cimitero».

La diocesi morava di Olomouc era stata più volte percorsa da ondate di paura connesse al ‘ritorno’ del morto. Era stata inoltre il luogo di pubblicazione del libro responsabile di aver acceso la miccia del dibattito nell’Europa occidentale del Settecento. Nel 1704 Carl Ferdinand von Schertz vi aveva infatti dato alle stampe una Magia posthuma, in cui mostrava perplessità, soprattutto giuridiche, sulla pratica di riesumare cadaveri sospettati di vampirismo per darvi fuoco al fine di distruggere insieme a quelle spoglie, spesso trovate incorrotte, la nefasta influenza che esse esercitavano sulla regione di sepoltura. Schertz, che si richiamava spesso ai manuali della tradizione gesuitica, tradiva incertezza filosofica e teologica, talvolta sovrapponendo, come d’altronde non di rado si sarebbe fatto anche in seguito, il fenomeno di cui cercava di dar conto a quello più noto degli incubi e dei succubi, i quali, come appunto i vampiri, tormentavano i malcapitati «comprimendo loro il petto e la gola fino quasi a soffocarli».

La Dissertazione di Davanzati, è una traccia del nascente pensiero razionalista italiano ma è anche una testimonianza dell’immaginario (le ansie, gli incubi, la speranza di rinascita) delle popolazioni europee alle soglie dell’età moderna. L’opera non è ignota agli esperti di medicina, teologia, diritto canonico ebbe una notevole circolazione già all’inizio degli anni Quaranta del XVIII secolo. Il marchese Scipione Maffei aveva letto avidamente lo scritto traendone ispirazione per le sue riflessioni; il papa Benedetto XIV lo aveva apprezzato «sì per la dottrina, che per la vasta erudizione».

Prima di diventare arcivescovo di Trani, l’autore aveva viaggiato a lungo, in costante contatto con la corte pontificia. A Roma aveva frequentato l’accademia del cardinale Gualtieri, studiando il pensiero di Locke, Leibniz, Spinoza e Cartesio, verificando per via sperimentale le teorie di Newton. Aveva dimorato a Firenze e Venezia, prima di arrivare nelle regioni dell’Europa centrale e orientale, dove aveva sviluppato la sua curiosità per la credenza nel vampirismo, che creava gravi problemi di ordine pubblico. Specie nelle aree rurali, si credeva che alcuni defunti riuscissero a tornare in vita per compiere scorribande notturne, molestare i vivi, abbeverarsi del loro sangue, danneggiare il bestiame con morsi e violenze.

Fin dalle prime pagine della Dissertazione il Davanzati mette in chiaro l’intenzione di contestare il carattere sovrannaturale del fenomeno e si preoccupa, quindi, di escludere qualsiasi possibilità di intervento di Dio o del demonio. Le spiegazioni vanno cercate nelle leggi dell’universo naturale, in termini razionali e scientifici. L’impresa è ardua: «Apparizioni di corpi morti, di giorno e di notte reiterate più volte dall’istessa persona, parlare, mostrarsi inteso de’ segreti della casa, chiedere da magiare e da bere, succhiare il sangue a’ vivi, mettersi a letto, chieder il debito matrimoniale alla propria moglie, e poi di fatto disparire, sono cose da fare ognuno trasecolare, non che potersi sostenere co’ mezzi umani simili spettacoli. Aggiungasi poi l’apertura de’ sepolcri, il ritrovarsi gl’istessi corpi de’ morti da più giorni vegeti, vermigli, turgidi di sangue, dar qualche grido mentre gli viene trafitto il cuore da un colpo di lancia per mano del carnefice: sgorgare liquido sangue dalle ferite, troncarsi il capo per sentenza giuridica, e poi non più comparire, par che siano effetti da non potersi in maniera veruna sostenere con tutta la filosofia fisica delle ragioni naturali».

Le ragioni di «tutte le strane e meravigliose apparizioni di tanti spettri o fantasmi d’uomini morti» secondo il Davazati vanno cercate nella forza dell’immaginazione, che è capace di creare immagini bizzarre e stravaganti, ma può anche modificare il corso naturale delle cose. «[La fantasia] non solo fa travedere quel che non è, fa sentire quel che non è, fa giudicare quel che in effetto mai fu in se stesso, ma opera e produce realmente, e fisicamente quel che prima non era, come sarebbe a dire un effetto fisico, che prima non esisteva, mediante però le forze di essa che fisicamente esista».

La suggestione permette alle persone di guarire dai più fastidiosi problemi di salute e può diventare, allo stesso tempo, causa «di tutti que’ mali che si chiamano malinconici, scorbutici ed ipocondriaci […]». Colpisce la mente durante il sonno, ma anche durante la veglia, deformando i pensieri, inculcando eccentriche convinzioni e spingendo gli individui ai gesti più illogici e istintivi. Non è un caso – sostiene con convinzione Davanzati – che le «strepitose apparenze» avvengano solo «in qualche villaggio della Moravia e dell’Ungheria». I presunti vampiri si mostrano solo a uomini e donne «semplici, dozzinali e di bassa lega», trascurando «persone nobili e di qualità, o pure scienziati, e di qualche dignità».

Il pensiero dell’autore della Dissertazione – interessato a mettere in lucele sue competenze di fronte alle gerarchie pontificie – corre ai vescovi chiamati a combattere la superstizione e a mettere fine a «simili atti barbari», quali «quelli di incrudelirsi in sì fatta maniera contro ad un innocente cadavere, che dee essere non meno sacrosanto appresso i cristiani cattolici di quelch’erano appresso i gentili […]». Concludeva si trattasse di un mero prodotto dell’immaginazione: «Dico dunque che per isciogliere e schiarire questo fenomeno non vi è d’uopo più ricorrere in cielo per i miracoli, né all’inferno per i demonj, né su la terra per invenire le cagioni, né molto meno vi è di mestieri ricorrere a’ filosofi per consultarne i loro sistemi. La vera causa di queste apparenze, chi brama di trovarla, non altrove la potrà trovare che in se stesso, e fuori di se stesso non la troverà giammai; la vera cagione de’ vampiri è la nostra fantasia corrotta e depravata».

Il prelato illuminista, uomo finissimo e acuto, studioso di diritto e teologia, appassionato di scienze matematiche e fisiche, apprezzato dai pontefici Clemente XI e Benedetto XIV, che con la sua opera di più ampio respiro, Dissertazione sopra i vampiri, operò una decisa demistificazione dell’esistenza dei vampiri, sulla base di una concezione razionalistica della natura e di una valutazione realistica del fenomeno vampiresco, non è l’unico legame tra Trani e i vampiri. E la nostra storia, non finisce affatto qua. E veniamo fin quasi ai giorni nostri, per poi fare nuovamente un salto all’indietro di parecchi secoli, rimanendo sempre a Trani, però.

Nel 2000, un gruppo di archeologi, iniziò nuovamente a scavare nella zona di Capo Colonna, vicino al bel monastero. La zona era già stata esaminata negli anni ’70, quando furono ritrovate tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e di quella del Ferro e vennero riportati alla luce reperti tardo-ellenici e micenei.

Qui qualcosa di unico nella storia degli scavi in Puglia – nonché della ritualità funebre antica – si è parato davanti agli occhi dell’archeologa Ada Ricciardi della Sovrintendenza. E l‘ipotesi vampirismo degli archeologi e antropologi è subito riemersa prepotente Nella sepoltura più piccola era deposto un cadavere in posizione prona, inginocchiato, schiacciato da un lastrone piazzatogli sulla spalla; nel secondo sepolcro, invece, tre erano i defunti, anch’essi inumati, ognuno con un proprio masso addosso. Lo scavo è stato condotto dalla Ricciardi nel 2001 ma la notizia, per evidente cautela, trapelò tempo dopo.

Trani – Scavi presso il Monastero di Colonna

Durante gli scavi precedenti effettuati negli anni ’70 a Capo Colonna, la penisoletta di Trani dove sorge il bel Monastero, non erano emerse sepolture: si trovarono invece tracce di insediamenti dell’età del Bronzo e anche fondi di capanna dell’età del Ferro, delimitate da un fossato. Furono recuperati reperti tardo-ellenici e micenei  (secondo la testimonianza dell’archeologo di allora).

Nel 2001, però, si ripresero le indagini in una zona limitrofa e riaffiorarono strutture di ambienti, con un cortile che doveva essere in origine lastricato (lo si deduce dal «vespaio» di ciottoli di mare disseminati che avrebbero dovuto formare il sottofondo). Le pareti di questi edificio presentavano una originalità: i paramenti esterni dei muri erano costituiti da lastroni infissi verticalmente nel terreno. Una tecnica costruttiva mai attestata per l’antica Peucezia o per la Daunia, visto che Trani allora sorgeva sul confine tra queste due popolazioni. D’altronde si doveva trattare, quasi certamente, di un luogo di culto. In questi ambienti sono riaffiorati frammenti di ceramica japigia che rimandano a una decorazione tipicamente Daunia. Stravagante è il disegnino di uno dei frammenti, che raffigura un bipede con una voluminosa cresta, nonché una lunga coda da rettile. Il loro «stile» indica con ogni verosimiglianza la datazione dell’intero insediamento e quindi delle tombe. Tutto dunque farebbe pensare alla fine alla fine dell’IX o all’inizio dell’VIII secolo avanti Cristo.

Uno dei primi contatti che abbiamo con i morti bevitori di sangue è quello che ci viene offerto da Odisseo che sulle soglie dell’Erebo invoca l’indovino Tiresia.
Siamo molto lontani dalle creature immonde che conosciamo come “vampiri”, ma la base è la stessa. Quello che conta è che ci troviamo di fronte a dei morti che invece di restare morti come dovrebbe essere a sommo onore e gloria di Dio, se ne escono dalle loro tombe per fare scempio del sangue dei vivi.
Quello che questi spettri (spectrum, spectra nella loro accezione classica, non di incorporeo fantasma, quindi, ma di “ritorno del morto”) cercano è la vita e il sangue ne è l’essenza, il veicolo, la loro strada per ottenere qualcosa che scivola via notte dopo notte dalle loro membra cadaveriche.

Una fossa circolare fu scavata accanto alla parete dell’edificio maggiore. A che cosa servisse resta per ora una domanda senza risposta; e ancora più intrigante è aver constatato che nell’interno del pozzetto fossero state infisse delle pietre. Certo, un rito di cui ci sfugge il senso.

Tuttavia il culmine del mistero di questo scavo a Capo Colonna non è certo la fossa, quanto le due tombe: che di per sé costituiscono una eccezionalità per questa epoca. Una di esse è all’interno dell’edificio: l’altra, più piccola, è esterna, si direbbe nel «cortile». Come si è detto in quest’ultima sepoltura fu deposto – ben duemila e ottocento anni fa – un uomo in una posizione ben strana:  quasi inginocchiato, prono, con addosso un lastrone. Identica fine fu riservata ai tre defunti ammassati nella tomba più vasta, anch’essi seppelliti con un macigno addosso. Il primo è un adulto maschio – sostenne il prof. Vito Scattarella del Dipartimento di Zoologia, sezione antropologia dell’Università di Bari, che con il dottor Sandro Sublimi Saponetti studiarono i resti ossei. Gli altri sono due adulti dai venti ai quarant’anni e un ragazzo di quindici anni.

L’indagine prosegui, ma nessun segno traumatico fu riscontrato sulle ossa: il che portò ad escludere una morte violenta, inflitta loro dalla comunità, che pure volle punire questi morti per l’eternità, e dopo la morte stessa. Le analogie con il “morbo o la strage de’ vampiri” diffusosi al tempo Giuseppe Davanzati sono inquietanti. La conferma che «vampirismo» è un tema comune a molte civiltà antiche, non è un prodotto del XVII secolo ma affonda le sue origini nella notte dei tempi dal momento che la credenza nei morti che si cibano dei vivi è da sempre diffusa. La loro estensione cronologica è impressionante: esistono documenti di vampirismo moderni, medioevali, greci, romani, babilonesi ed ebrei.

Che si trattasse di sepolture di reietti era emerso subito per vari indizi: non solo l’imposizione dei massi, ma anche la mancanza di qualsiasi ornamento e corredo funebre: neppure un frammento di ceramica fu adagiato nelle tombe. Eppure i loro corpi non furono lasciati insepolti o gettati in mare. Oltre al sasso, i corpi furono ricoperti di terreno, e le tumulazioni furono sigillate con un lastrone di pietra. E’ quasi esplicita in un siffatto rituale la volontà di impedire ai defunti un ritorno tra i vivi. Gli antropologi baresi Scattarella e Sublimi pensarono subito ad un fenomeno di «vampirismo».

Le deposizioni di Trani, pur essendo uniche in Italia, hanno dei riscontri con altre scoperte degli archeologi nel nord della Grecia: fu la studiosa greca Anastasia Tsaliki a rivelare in alcuni congressi di antropologia la permanenza di rituali funebri di questo genere, dall’era neolitica fino ai giorni nostri.

Il masso imposto al defunto doveva impedire che egli tornasse a portare scompiglio nella comunità dei vivi. Naturalmente, quando si parla di «vampirismo» non ci si vuol riferire al mondo dell’orrore, come lo intendiamo oggi. E tuttavia questi trapassati dovevano essere affetti da morbi connessi con la manifestazione del sangue, sostennero gli antropologi; quali la fotofobia, la porfiria, la tubercolosi polmonare, la rabbia ecc … Su quali fonti letterarie o documentali dell’antichità si basi questa convinzione, non è dato ancora sapere con precisione dopo circa vent’anni dall’incredibile scoperta. Ma certo, l’indagine non finisce qui, e di queste sepolture si continuerà ancora a parlare negli anni a venire.

Macigni, ritorni dal mondo dei morti … Un nesso non nuovo. Se già all’interno di necropoli preistoriche sono stati rinvenuti cadaveri che recano delle pietre piantate nel corpo, ciò fa supporre la credenza in quei popoli che taluni individui potessero tornare dall’aldilà qualora non venissero uccisi secondo un ben preciso rituale. Su alcune iscrizioni tombali persiane risalenti al 2300 a.C. è raffigurato un uomo che lotta contro un mostro intenzionato a succhiargli il sangue. La stessa tipologia di reperti compare già nel VII secolo a.C. anche in Cina, Assiria, presso i Maya, gli Indiani, i Polinesiani ed anche presso i discendenti dei Vichinghi. Le coincidenze tra le svariate testimonianze di popolazioni così distanti e diverse tra loro per cultura e credenze religiose dovrebbero far riflettere gli studiosi che di norma affrontano l’argomento negando l’esistenza effettiva del fenomeno. Una cosa è certa: che la tradizione dei vampiri tragga origine dalla vita del conte Vlad Tepes (1430-1476), detto l’impalatore, a cui il romanziere Bram Stoker si sarebbe ispirato per la sua opera “Dracula” (1897), rappresenta quindi una grossolana falsità.

Fonti:
Francesco Paolo de Ceglia, La scienza dei vampiri. Giuseppe Davanzati e i confini tra vita e morte nell’Italia del Settecento”. In Atti Acc. Rov. Agiati, a. 265, 2015, ser. IX, vol. V: 79-101.
Pasquale Palmieri, Medicina e religione nella Dissertazione sopra i vampiri. Contributo al volume: Antropologia e scienze a Napoli in età moderna (1734-1815), 2012, Aracne, Roma.
Quando in Puglia arrivarono i vampiri”. In Historia Medicinae, 2005: 19-26.
Antonio di Giacomo, Dracula? E’ nato a Trani, la Repubblica,

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