Memorie della toilette di una volta: “u’ pràise” detto anche “u’ mezzëgnòrë”

Storia ancora poco raccontata dell’antenato del wc a Molfetta e delle abitudini familiari nelle spartane toilette di una volta. Di Angelo Boccanegra

“U’ pràis”, il water di una volta.

“U’ pràise”, termine poi italianizzato dal volgo locale in “priso”, detto anche “u’ mezzëgnòrë, letteralmente dal vernacolo “monsignore”, era in parole povere il water di una volta a Molfetta.

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Come e perché i nostri antenati avessero deciso un bel giorno di chissà quale anno, sicuramente remotissimo, di etichettare questo grande vaso di coccio, utilizzato per i loro sommi bisogni corporali, come “monsignore”, non è dato sapere. Fatto sta, che “Monsignore” è un titolo religioso usato ancora oggi nella Chiesa Cattolica, mutuato dal francese monseigneur, che significa “mio signore”. Esso è riservato, all’interno della Chiesa Cattolica, a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine sacro nel grado dell’episcopato, il Vescovo in pratica. Quindi, in passato, con il termine “u’ mezzëgnòrë, poteva intendersi il cesso, detto papale papale, come anche il Vescovo. Il termine, quindi, aveva un doppio significato. Casualità? Non ne sono affatto convinto.

La satira popolare, in passato, era praticamente l’unico sfogo degli oppressi dal potere del tempo (rappresentato anche dal clero) e sul “mezzignore” i popolani più burloni si divertivano ad imbastire non poche caustiche battute, quando non anche vere e proprie burle. Non bisogna dimenticare che la satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole del passato come quella, per esempio  di inginocchiarsi davanti al Vescovo prima di baciargli l’enorme anello.

Anche sul termine “priso” si scherzava spesso in maniera feroce. Ancora oggi, non più come in passato però, è possibile che qualcuno dica ancora al suo diretto interlocutore: “sì comë a nù pràise. In pratica, è come se uno dicesse: “sei come un cesso!”; oppure molto più direttamente “sì nù pràise”: “sei un cesso!.

“U’ pràise”, nudo e crudo, al di qua della satira e dell’ironia popolare, era un rudimentale WC di terracotta smaltato, che si restringeva nella parte bassa, utilizzato per i bisogni corporali “più importanti” della famiglia quando Molfetta era ancora sprovvista di rete fognaria. Posizionato in un angusto sgabuzzino o stipo a muro, era provvisto di un coperchio in legno che serviva (almeno nelle intenzioni) a non far uscire sgradevoli odori. “L’arredo” del bagno di una volta, era completato poi dalla “pézze dù pràise”, uno straccio appeso ad un chiodo infisso alla parete vicino “o’ pràise” che si adoperava a mo’ di carta igienica. Noi da ragazzi la chiamavamo anche “la pezza stellata”. Nulla a che vedere con l’astrologia, ovviamente. Inutile spiegare perché…

“U’ pisciàtaur” dentro la “colonnetta” (il comodino). Fungeva da comodino e veniva utilizzato in mancanza di servizi igienici, in genere per le evacuazioni liquide notturne.

Fino agli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso era ancora un miraggio disporre di quell’utile carta da bagno che oggi troviamo in tutte le sue variabili di spessore e morbidezza  (in base alle personali preferenze). Era molto difficile, a fine giornata, trovare un “punto libero” in quello straccio, dopo aver espletato i propri bisogni. Non bisogna dimenticare, infatti, che le famiglie di una volta erano molto numerose, per cui è facile immaginare in che condizioni si trovasse quella “pezza” a fine giornata quando tutti avevano adempiuto alle loro corporali funzioni. Lo straccio, solo a fine giornata, veniva sostituito con un altro già utilizzato nei giorni precedenti, ma già bollito (quindi sterilizzato) e asciugato. Neanche quello veniva buttato! Pure quella “pezza” veniva riutilizzata fino alla sua totale consunzione.

Nel bagno c’era un altro accessorio: “u’ pisciàtaure”, l’orinale in pratica. Anche questo termine, italianizzato in “pisciaturo”, oltre che all’orinatoio casalingo, poteva essere riferito, in maniera caustica ma a volte anche offensiva, ad una persona, ad un buono a nulla o una persona su cui non si poteva contare. La frase tipica era: “sì comë a nù pisciàtaure” (superfluo tradurre a questo punto). “L’accessorio”, più piccolo rispetto al “priso”, durante la notte poteva essere posizionato sotto al letto o dentro un comodino, ma questa è un’altra storia che vedremo più avanti.

Ma quando e, soprattutto, dove veniva svuotato “u’ pràise”? Bella domanda. Adesso viene forse la parte più sconvolgente di questo racconto. Ogni mattina, girava per le strade di Molfetta “u’ carràte”, una specie di autobotte e in tempi ancora più lontani, “u’ trajàine”, un carretto trainato da muli. Erano questi i mezzi “abilitati” che consentivano di poter svuotare quotidianamente “i vasi familiari”. Tutte le donne in passato, di prima mattina, si facevano trovare vicino alle loro casa in attesa di poter velocemente scaricare il contenuto di tutti questi accessori che un tempo fungevano da water. Se si saltava l’appuntamento quotidiano o se per una qualche ragione (poteva accadere), il mezzo non passava, vi lascio solo immaginare…

Non è ancora tutto. Come già evidenziato in altri miei interventi, in passato non si buttava via niente, ma proprio niente, e quindi neanche “la pupù”. E infatti “u’ carràte”, quando raggiungeva il suo “pieno carico”, veniva portato in campagna dove il suo contenuto veniva svuotato nei campi per concimarli. Spesso “il materiale” veniva sparso intorno agli alberi d’ulivo. In pratica, lasciatemi passare uno spunto ironico, quando in passato mangiavamo le olive durante l’anno, è come se qualcosa fosse ritornato da dove era partito. Non mi vergogno nel dire che io c’ero, a quei tempi, anche se i ricordi non sono più limpidi, ma nonostante a qualcuno questo racconto possa far storcere il naso, noi siamo ancora qua, vivi e vegeti, a raccontare in maniera nuda e cruda quella che era la vera vita in passato; quella vita vera del popolo che i libri di storia non raccontano quasi mai.

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