“Le mammane”, storie di quando i bambini nascevano in casa

Il parto di una volta: come si preparavano a viverlo le donne? Venivano assistite in casa dalla levatrice: “la mammana”. Ne avete mai sentito parlare? Da un racconto di Angelo Boccanegra

Il bagno, dipinto del 1902 di Leopoldo García Ramón

In un tempo già abbastanza lontano dai giorni nostri, prima della diffusione di ospedali e cliniche private, le donne partorivano presso la propria abitazione. Il parto avveniva in modo concitato. Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma. Tutte donne, insomma, perché il parto era ritenuto “cosa di donne”. Al marito spettava l’unica incombenza di andare a chiamare con urgenza la donna esperta di nascite che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti. Queste donne che facevano nascere tutti i bambini erano chiamate “mammane” (dalle nostre parti, in vernacolo: “memmére”). Il nome deriva da mamma, perché come una seconda mamma, la mammana contribuiva a dare alla luce una creatura.

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La mammana non era semplicemente una ostetrica ante litteram. In realtà i suoi compiti di assistenza non si esaurivano con la nascita del bambino. Infatti, essa dava anche indicazioni alle madri sul riposo e sul mangiare nei giorni che seguivano al parto. Allora consigliava alla puerpera di mangiare per tre giorni dopo l’evento solo brodo di pollo, per evitare le febbri molto frequenti dopo il parto e per avere latte buono. Durante il parto la mammana interveniva utilizzando rimedi naturali, come l’applicazione di panni caldi, per alleviare il dolore. Quando arrivavano i dolori uterini consigliava di bere la camomilla con delle foglie d’alloro (ora si usano gli antispastici). Con le sue mani riusciva a manipolare la posizione del bambino per farlo nascere in maniera corretta, ungeva con l’olio d’oliva il collo dell’utero e con l’unghia del mignolo, che portava lunga e affilata, rompeva la membrana permettendo così al bambino di venire al mondo nel migliore dei modi. Con l’acqua bollita fatta preparare e l’acido ossalico sublimato, la mammana poi puliva la mamma e il figlio. Nei primi giorni faceva i bagnetti al piccolo, gli medicava il cordone ombelicale e rifaceva la fasciatura.

In quegli anni, per la denutrizione, molti bambini crescevano con la colonna vertebrale o le gambe storte. Per le conoscenze mediche di allora, per evitare queste deformità, appena nati i bambini venivano avvolti con una striscia lunga di tela che impediva al neonato ogni movimento. Anche per questi compiti, svolti fuori dell’ordinario, è normale che la gente portasse alle mammane massimo rispetto, riconoscenza e un certo timore. Nella fantasia popolare era ritenuta un personaggio persino magico, come una sorta di maga che allontanava il malocchio dal neonato. Sappiamo già che a quei tempi la superstizione era largamente diffusa.

Antico rilievo romano rappresentante un’ostetrica

Per millenni, i primi istanti di vita dell’uomo si sono avvalsi dell’apporto di questa singolare figura di donna, considerata nei vari secoli ora una fattucchiera, ora una persona ben addentrata nell’arte sanitaria, ora una sorta di santona capace di intervenire nelle circostanze più disparate nel difficile momento della nascita di una nuova vita. Dall’antichità alla fine del Medioevo il parto e la nascita erano eventi che si mescolavano ad altri della vita quotidiana: la medicina antica si occupava del parto solo a livello teorico, mentre l’arte ostetrica, “l’arte dello stare accanto”, era pertinenza assoluta delle donne che si tramandavano le loro pratiche dall’una all’altra, di generazione in generazione.

Nell’antica Grecia l’assistenza alle partorienti era affidata a donne anziane, le quali si occupavano, oltre che di parto e nascita, di sterilità, di isterismo e altre malattie femminili. Nell’antica Grecia partorire era molto rischioso per le donnecome per l’uomo andare in guerra. Molte morivano in seguito a emorragie o ad altissime febbri puerperali. E così, quasi che partorire e combattere fossero due forme parallele di eroismo, un’antica legge spartana equiparava le donne di Sparta morte di parto agli eroi caduti in guerra. Erano queste le uniche categorie cui fosse concesso scrivere il nome sulle iscrizioni funebri. In Grecia generalmente la donna partoriva seduta su una sedia che aveva al centro un’apertura a forma di mezzaluna, due braccioli, a cui ella si aggrappava per “spingere”, e uno schienale duro. Poteva essere usato anche un semplice sgabello, privo sia dello schienale sia dei braccioli. In tal caso la levatrice o un’assistente al parto sorreggeva posteriormente la partoriente. Sorano di Efeso riteneva opportuno che la partoriente potesse vedere in volto l’ostetrica, le cui espressioni erano in grado di rassicurarla del buon andamento del parto (Libro delle levatrici).

Rilievo in terracotta raffigurante una scena di parto, tomba di Scribonia Attice e M. Ulpio Amerimno, necropoli del’Isola Sacra, Ostia, 140 d.C. – Ostia, Museo Ostiense. La raffigurazione riportata sulla tomba indica che la donna sepolta era un’ostetrica.

Nell’antica Roma le levatrici venivano chiamate Obstetrices, che significa “colei che sta davanti”: ciò fa supporre che per poter esercitare la professione esse dovessero avere avuto figli e fossero già avanti con l’età, diciamo verso il periodo della menopausa. Con la caduta dell’Impero Romano si assiste ad un periodo di oscurità e quasi di regressione per tutta la scienza medica, compresa l’ostetricia. Nonostante ciò le levatrici riescono a mantenere il loro ruolo: una testimonianza di questo fatto viene fornita dal Gynaecia di Muscione, scritto in epoca bizantina, che rappresenta una sorta di catechismo per le levatrici. In tal senso la levatrice doveva conoscere le “medicine”, e doveva essere calma, prudente, coraggiosa, modesta ed intelligente poiché, oltre a prestare assistenza al parto, essa doveva intervenire anche in tutti i casi di patologia femminile. Inoltre doveva incoraggiare la partoriente “ridandole fiducia, rassicurandola che non vi è alcun pericolo e, per di più, insegnando a quella che non ha mai partorito e non ha mai provato le doglie che, quando queste giungeranno, dovrà spingere trattenendo il respiro e spingendo verso il basso”. In ogni caso possiamo supporre che le levatrici di quel periodo basassero la loro pratica ed esperienza soprattutto sull’empirismo e sul buon senso, almeno fino a quando non si afferma la Scuola Salernitana, cioè dopo l’anno 1000. Infatti l’ostetricia era allora definita “chirurgia mistica” o anche “divina arte” e Trotula, ostetrica salernitana laureata in Sacra Medicina e Chirurgia, divenne molto conosciuta grazie al suo “Passionibus mulierum curandarum”, primo trattato di ginecologia scritto da una donna. Le levatrici continuarono però a curare l’assistenza  secondo criteri prevalentemente empirici, aiutate da una scarsa ed imperfetta informazione scientifica e senza una vera e propria regolamentazione.

Con effetti più tangibili si fece invece sentire l’attenzione per le mammane da parte della Chiesa, che già alla fine del 1400 aveva gettato su queste il sospetto di stregoneria, dando forse voce a credenze e paure già esistenti. Gli inquisitori avevano l’opinione che dietro ogni levatrice si celasse una strega: questa fu la prima forma di controllo sulle levatrici, motivato dal sospetto di stregoneria e diffidenza nei loro confronti, atteggiamento che ben rispecchiava l’angoscia e la paura di fronte alla nascita e al pericolo che i neonati morissero prima di ricevere il battesimo.

Le mammane ebbero una grande considerazione sociale nel periodo della Controriforma, quando gli venne riconosciuto il privilegio di poter amministrare ai neonati il sacramento del battesimo. Con il Concilio di Trento si propose nuovamente la necessità di una giurisdizione scolastica sulle donne che assistevano le gravide: in questo modo i sinodi vescovili prescrissero che le levatrici, potendo trovarsi nella necessità di amministrare il battesimo nel caso di pericolo di vita del neonato, venissero istruite ed approvate per iscritto dal vescovo o dal parroco sulla loro capacità di ben battezzare; che le stesse si procurassero due testimoni disponibili poi ad essere interrogati dal parroco sull’esattezza della formula battesimale e delle modalità sacramentali usate. Dalla fine del Cinquecento e nei secoli a seguire, la mammana appare come elemento di spicco nella società dell’epoca, partecipando in prima persona anche ai battesimi amministrati dai parroci nelle rispettive parrocchie. Ciò anche perché il battesimo veniva amministrato nella stessa giornata della nascita del bimbo per timore che morisse prematuramente senza essere stato battezzato.

Nel 1500-1600 il ruolo della levatrice non era molto diverso da quello delle obstetrices dell’antichità: infatti non si occupavano solo di parti, ma anche delle malattie delle donne e dei bambini, di bellezza e cosmesi, della sessualità e dei rimedi per numerosi disturbi della salute. La loro cultura si basava sulla capacità di comporre bevande e medicamenti, a cui si aggiungeva anche un bagaglio di preghiere e invocazioni in cui sacro e pagano si mescolavano tra loro, insieme a pratiche dettate dall’esperienza e da residui di riti magici.

Un altro aspetto della delicata funzione sociale svolta dalle levatrice, la si nota nel Regno di Napoli nei primi decenni dell’Ottocento. Contro il facile stereotipo negativo che vedeva le mammane ignoranti, superstiziose e rozze, queste donne si dimostrarono abili mediatrici con le madri per indurre le famiglie a praticare le vaccinazioni antivaiolose ai propri figli, pratica introdotta dal medico Edward Jenner. Le partorienti si sentivano rincuorate e consolate più dalla presenza della più ignorante delle levatrici che dai soccorsi abili di un medico ostetrico. La delicata operazione della vaccinazione trovò larga diffusione durante il Decennio francese e nel successivo periodo della Restaurazione borbonica.

In tempi più recenti la levatrice era una persona ben addentrata nell’arte sanitaria, capace di intervenire nelle circostanze più disperate nel difficile momento della nascita di una nuova vita. Gran parte di queste donne potevano contare sulla propria esperienza personale. Nei vari registri dello stato civile, istituiti a partire dal 1809 dal Governo napoleonico nel Regno di Napoli, quasi tutte le levatrici che si presentavano dal Sindaco per denunciare la nascita di un bambino firmavano la dichiarazione con il classico “segno di croce”. Tale circostanza continuò anche negli anni a venire. Soltanto con l’Unità d’Italia, però, la materia trova alcune fonti normative. Ad occuparsi delle levatrici ci furono una serie di provvedimenti legislativi, a partire dal Regio Decreto del 1876, relativo al “Regolamento delle Scuole di Ostetricia per levatrici”, per proseguire con la legge sanitaria Crispi del 1888, con la quale si stabilivano i titoli necessari per poter esercitare un’attività sanitaria. Nel 1906, con R.D. n. 466, viene istituita la “Condotta Ostetrica”, per garantire l’assistenza ostetrica a tutte le donne, comprese le non abbienti, e tale istituto accompagnerà l’Italia fino alla riforma del 1978.

Numerosi altri provvedimenti seguiranno in materia sanitaria. In particolare nel 1910 furono istituiti gli ordini professionali, dai quali furono però escluse le levatrici. Con l’abolizione dei liberi sindacati ad opera del regime fascista e la creazione dei sindacati fascisti di categoria, fu però istituito un sindacato nazionale delle levatrici. Nel 1935 con un R.D.L. abbiamo finalmente l’albo delle levatrici. Un altro atto importante per le nostre mammane fu il R.D.L. n. 1520 del 1937, con il quale il titolo di levatrice venne sostituito con quello di ostetrica, anche in considerazione del tipo di studi richiesto che si otteneva dopo la frequenza di un corso triennale, alla cui ammissione si richiedeva il diploma di scuola media inferiore.

“Prezzario” di una casa di piacere degli anni ’30.

Il termine “mammana”, però, non ha avuto un’accezione sempre positiva. Originario dell’Italia centro-meridionale, il termine mammana è stato utilizzato in passato non solo come sinonimo di levatrice, di ausiliaria delle partorienti in casa, ma anche per identificare la tenutaria di casini”, le case di tolleranza dell’epoca, almeno fino all’approvazione della Legge Merlin nel 1958. Non solo. Il termine è stato utilizzato anche come sinonimo della donna che eseguiva, sempre in casa, gli aborti clandestini, almeno fino all’approvazione nel 1978 della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, meglio nota come Legge 194.

La mammana dalle nostre parti, in tempi passati, in larga misura, era una figura positiva: era la donna esperta in tecniche di parto. In tempi passati tutti i mestieri si imparavano osservando da chi già esercitava un mestiere; nel caso della levatrice generalmente il mestiere veniva tramandato da madre in figlia.

Il parto avveniva nella camera matrimoniale e si procedeva al battesimo la prima domenica successiva, perché si temeva per la sopravvivenza del bambino. Infatti molti erano i rischi legati al parto: aborti, malattie e anche morte del nascituro. La mortalità da parto in quel tempo era molto alta. La mammana in qualche modo entrava a far parte della famiglia in quanto ricopriva un ruolo importante anche successivamente il parto tramite controlli e visite in casa alla mamma e al suo bimbo; era una figura molto rispettata, e alle volte prestava gratis il suo “lavoro”, garantendosi così stima, affetto e ammirazione.

Nell’imminenza del travaglio si allontanavano dall’abitazione uomini e bambini. Le donne adulte della casa o del vicinato entravano in azione riscaldando grandi pentoloni d’acqua e preparando le varie pezze di stoffa necessarie per il nascituro e la mamma. Al marito, l’unica cosa che toccava, era di andare a chiamare la levatrice o la donna esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese. Quando arrivava trafelato un marito a cercarla, a qualsiasi ora del giorno o della notte, la levatrice non perdeva tempo. Sapeva quello che doveva fare, grazie alla sua esperienza. Non sempre il parto era facile, anzi. Quando si complicava bisognava correre a chiamare anche il medico. Quest’ultimo veniva interpellato solo in casi estremi, quando la partoriente era in gravi condizioni: nel mondo contadino, ci si è sempre arrangiati alla meno peggio.

Durante il parto era importantissima l’igiene, dunque bisognava far bollire tanta acqua per pulire bene la partoriente e il nascituro; questo era il solo mezzo utilizzato per disinfettare tutto. C‘era un gran trambusto di pentole e catini di acqua calda. Espletato il taglio del cordone ombelicale (con le forbici normali disinfettate con l’acqua bollente), e una volta che il neonato era ben lavato e asciugato veniva fasciato dal collo ai piedi con una striscia di stoffa bianca. Era una striscia alta circa 15 centimetri e molto lunga. Aveva l’incombenza di mantenere diritta la schiena e le gambe dei neonati, la testa era coperta con una cuffietta in filo di cotone lavorata con particolare cura. Fasciare un bambino era un’impresa non semplice: due o tre giri intorno alla pancia altrettanti tra le gambe, di nuovo altri due tre giri sui fianchi e poi si provvedeva ad avvolgerlo strettamente. Possibilità di muovere le gambe: nessuna. Lo si lasciava così fino a quando, bagnato e sporco, si sfasciava, si lavava in qualche modo e si riavvolgeva in fasce pulite: igiene ridotta all’indispensabile, rossori e piaghe frequenti.

Allora generalmente le donne erano prosperose e i bimbi venivano allattati dalla mamma. L’allattamento durava finché la mamma aveva latte, poteva prolungarsi anche oltre i due anni: non costava niente e qualcuno credeva che impedisse gravidanze immediate. Adesso ci sono una infinità di marche di latte in polvere, per tutte le esigenze e intolleranze. In passato solo latte di mucca allungato con un po’ d’acqua, meglio ancora quello di capra, ma la capra non si trovava facilmente. Tutto quello che riguardava l’igiene del bambino era quasi sconosciuto per cui, frequentemente esso veniva colpito dalla gastroenterite o dal tifo, con conseguenze spesso gravi. La domenica mattina era di rigore il bagnetto nel “mastello” del bucato ed era di acqua tiepida, ben insaponata.

La culla era molto piccola, in legno decorato a mano, il materassino consisteva in un sacco di lana molto pieno e sulle coperte era steso un drappo il più bello possibile. Le case, all’epoca, non erano molto riscaldate e qualche volta i bambini morivano di polmonite nei primi mesi, soprattutto se avevano la sfortuna di nascere in inverno. Quando si temeva per la vita del nascituro, il battesimo veniva amministrato in casa subito dopo la nascita dalla levatrice e poi completato con la cerimonia in chiesa. Oggi si nasce quasi sempre in ospedale.

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