Il “Titulus Crucis” e il suo segreto “nascosto”…

Tutto cominciò quando Costantino decise di cercare le reliquie perdute della Passione di Cristo e di riportare alla luce il luogo del supplizio e la tomba di Gesù al fine di edificarvi un tempio cristiano…

Il Titulus crucis conservato nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma

‘Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum’, questo è il significato della sigla INRI apposta sul crocifisso di Gesù, ossia ‘Gesù Nazareno Re dei Giudei’. Questo Gesù diceva di essere e questa fu la causa della sua condanna, per oltraggio a chi regnava, una condanna per lesa maestà. Lo possiamo leggere nel Vangelo di San Giovanni: “Pilato intanto fece scrivere anche il titolo, che diceva la causa della condanna, e lo fece porre sulla croce. Vi era scritto: ‘Gesù Nazareno, Re dei Giudei’. Or molti dei Giudei lessero quest’iscrizione, essendo il luogo dove fu crocifisso Gesù, vicino alla città. Ed era scritto in ebraico, in latino e in greco. Dissero dunque i grandi Sacerdoti dei Giudei a Pilato: ‘Non scrivere: Re dei Giudei; ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei’. Rispose Pilato: ‘Quel che ho scritto, ho scritto’”. (Gv 19, 19-22). “Quod scripsi scripsi / quel che ho scritto, ho scritto”, lapidaria formula di Pilato per rispondere ai Giudei alla loro contestazione. E così rimase: “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”.

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Nella basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme, dov’era l’antico palazzo dell’imperatrice Elena, si conservano molte reliquie della Passione: una considerevole porzione della Vera Croce, due spine della Corona, un Chiodo e il “Titulus”, ossia il cartiglio con la condanna che Pilato fece porre sulla Croce di Gesù, una reliquia importantissima, senza dubbio, della quale ne resta solo una parte, e della quale è molto difficile provare la sua autenticità. Secondo la tradizione, fu trovata da Sant’Elena insieme alla Vera Croce. Tra il 1484 e il 1493 il cardinal Pedro González de Mendoza sottopose la chiesa della Santa Croce al restauro del coro, del soffitto (ormai perso), e dell’affresco dell’abside. Durante questi lavori, quando gli operai si trovarono alla sommità dell’arco trionfale, trovarono – con grande sorpresa, come attesta il “Diario della città di Roma” del 1492 – una nicchia. Dentro questa, vi era una scatola di piombo, e sopra questa, una tabella di terracotta, con la scritta “TITULUS CRUCIS”, così in stampatello. Fu probabilmente nascosta nel V o VI secolo per proteggerla dalle invasioni barbariche. La sistemazione della reliquia in questa ubicazione si deve a papa Lucio II (1144-1145) che fece costruire il transetto di cui l’arco trionfale fa parte. Il perché la fece sistemare in questo luogo nascondendola di nuovo per secoli resta ancora un mistero.

Anche se la parte destra e quella superiore sono molto deteriorate si può leggere chiaramente la parte iniziale delle iscrizioni in greco e latino mentre dell’iscrizione superiore, in ebraico, più logora, solo tre lettere sono leggibili. Le parole sono scritte da destra verso sinistra, secondo la tradizione semitica, e le lettere sono rovesciate, come se fossero viste in uno specchio. Partendo dall’ipotesi che questa sia la metà della reliquia originale, le sua misura doveva essere di 50 cm. La leggenda secondo la quale la tavoletta fu portata a Roma Sant’Elena, dice anche che l’imperatrice, quando la trovò insieme alle tre croci ed ai chiodi, la divise in due (o forse in tre). Una la portò con sé a Roma (la parte destra) e l’altra la lasciò a Gerusalemme.

Frammenti della Vera Croce che fanno parte del Tesoro Imperiale di Vienna, Austria

Maria Luisa Rigato, teologa e cattedratica dell’Università Gregoriana di Roma e profondamente convinta dell’autenticità di questo reperto, sostiene invece che la reliquia non fu portata a Roma da Sant’Elena ma da Gregorio Magno verso la fine del VI secolo. Secondo questa teoria il Titulus sarebbe stato trovato nel sepolcro di Gesù insieme alla Sacra Sindone, e non nel Calvario, perché riportava la causa della sua condanna. Quindi mette anche in dubbio la teoria della divisione in due (o in tre) della tavoletta, secondo la tradizione della Chiesa.

Il Titulus reca una parte dell’iscrizione nelle tre lingue ma in ordine diverso da quello descritto da Giovanni, ossia in ebraico, greco e latino (e non ebraico, latino e greco come dice Giovanni). Nel testo latino è riportata la versione “Nazarinus” anziché “Nazarenus“. “Nazarinus” non è proprio del latino della vulgata (dal IV sec. d.C. in poi) ma appartiene al latino classico. Alcuni sostengono che sia un errore di chi ha scritto il titulus, altri invece  propendono per una forma più arcaica per indicare la provenienza. Queste anomalie sono considerate da alcuni indizi di autenticità. Le foto dell’iscrizione furono fatte esaminare da diversi paleografi che confermarono che le lettere sono compatibili con quelle usate nel I secolo. Per cui questo porterebbe a concludere che se non siamo in possesso dell’originale, per lo meno potrebbe trattarsi di una copia fedele dell’originale, e non di un falso. Un ipotetico falsario si sarebbe verosimilmente attenuto più fedelmente alla descrizione del vangelo, difficilmente avrebbe usato una scrittura retrograda o prodotto imitazioni paleograficamente verosimili.

Nella parte in latino, possiamo leggere: I NAZARINUS R, e in quella greca IS NAZARENUS B che andrebbero completati rispettivamente con EX IUDAEORUM e ASILEOS TON IUDAION, dove della parola “re”, (rex, basileos) rimane solo la prima lettera. L’iniziale “I, IS” sarebbe l’abbreviazione di Iesus, nome estremamente diffuso in Galilea, motivo per il quale non l’avrebbero scritto per esteso. Ora se si confrontano le quattro iniziali della scritta in latino “Iesus Nazarinus Rex Iudaeorum “ appare “INRI”.

Un erudito ebreo, Schalom Ben-Chorin, ha avanzato l’ipotesi che la scritta ebraica fosse simile a quella riportata da Giovanni: “Yeshua Hanozri W(u)melech Hajehudim”, cioè letteralmente: “Gesù il Nazareno e Re dei Giudei”. In tal caso le iniziali delle quattro parole corrisponderebbero esattamente con il tetragramma biblico, il nome impronunciabile di JHWH (Jahwèh). Il Tetragramma (dal greco “quattro lettere”) indica il Nome con cui Dio si rivelò a Mosè (Esodo, III, 14-15): “Io Sono Colui che Sono / Ego sum qui sum”, e significa l’Essere stesso per sua natura, Colui la cui proprietà essenziale è l’Essere. Quindi la scritta “INRI” non solo ci ricorda che Gesù è il Re del mondo intero e dei Giudei ma anche che “Egli è Colui che è” (“YHWH”), ossia l’Essere increato e Creatore del cielo e della terra.

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