Ama starsene al sole, godersi la brezza marina delle vicine zone costiere, il clima mite anche d’inverno, circondato da una vegetazione ricca e spontanea. Proprio come piaceva ai suoi “antichi” parenti

Passeggiando per i sentieri ancora poco frequentati delle nostre campagne, tra i nostri ulivi secolari, s’incontrano all’improvviso, in maniera quasi imprevista, altri alberi monumentali, con foglie più grandi, dal colore verde scuro e lunghi baccelli verdi o marroni. Anche il loro tronco è contorto, a volte sembra essere avvolto da canne d’organo che silenziosamente suonano la melodia della natura. Sono i carrubi, alberi maestosi tipici della macchia mediterranea, introdotti nell’Italia meridionale dai Greci o dai Fenici e diffusi nel Medioevo dagli Arabi che li coltivavano e ne consumano i frutti per usi medicinali e alimentari. Qui gli elementi ambientali favorevoli alla loro crescita ci sono tutti e agli Arabi si deve anche il nome, derivante dalla parola “kharrub”.
I nostri cari carrubi amano starsene al sole, godersi la brezza marina delle vicine zone costiere, il clima mite anche d’inverno, circondati da una vegetazione ricca e spontanea. Proprio come piaceva ai loro “antichi” parenti, le cui origini sono remote e ancora dibattute. Abbiamo testimonianza della loro presenza in autori naturalisti come Columella o Plinio il Vecchio, il quale definisce il carrubo, il frutto, «[…] non gran fatto differente dalle castagne […], se non che in questi si mangia anchora la corteccia. Esse sono lunghe quanto le dita de gli huomini[…]» (Historia Naturalis). Ma ne parlano anche i Vangeli di Matteo e Marco quando descrivono il “pasto” di Giovanni Battista nel deserto.
Molte sono le leggende o credenze popolari che accompagnano la lunga, lunghissima storia dei carrubi. Le più conosciute raccontano la presenza di streghe o fate nei loro tronchi, o la presenza di tesori nascosti tra le loro radici, tanto preziosi quanto più imponenti erano i loro tronchi. Che siano un’invenzione o no queste leggende, oggi sappiamo che il vero tesoro di questi alberi è nei loro polposi frutti. I loro semi venivano usati come unità di misura nella pesata delle pietre preziose. Ma perché gli antichi usavano i semi del carrubo per pesare le gemme? Perché i semi erano ritenuti avere una massa eccezionalmente costante. La parola carato, infatti, deriva dal greco kerátion (“seme di carrubo”) da cui deriva la parola araba qīrāṭ, (“ventiquattresima parte”).
A Molfetta esiste anche una contrada chiamata “de r pestazze” (delle carrube) per la presenza di molti alberi di carrubo. I nostri nonni la chiamavano la cioccolata dei poveri proprio per la ricchezza di zuccheri e grassi, parte dei succedanei del cioccolato che si ottengono dalla pasta o dai semi del frutto. In passato (specie in tempo di guerra o carestia) il seme macinato diventava farina. I suoi fiori consentono alle api di produrre un miele (scurissimo) di particolare qualità; dalla fermentazione dello stesso si ricava alcool etilico; le carrube, che si conservano per molto tempo, possono essere consumate fresche o secche o, in alternativa, passate leggermente al forno.
A partire dagli anni Ottanta anche l’industria alimentare ha riscoperto la carruba di cui utilizza la polpa per ricavare il “carcao” (un succedaneo del cacao a basso contenuto di grassi) e il “semolato” (la farina che si ottiene facendo essiccare prima la polpa e poi tritandola) e i semi da cui si ricava una farina dall’elevato potere addensante che viene utilizzata in particolare nell’industria dolciaria e delle conserve alimentari; è utilizzata da chi vuole far addensare i dolci con un ingrediente naturale e da chi vuole sbizzarrirsi nella produzione di creme e torte, usandola al posto del cacao in polvere. Inoltre, la farina di carrubo (reperibile soprattutto in farmacia ed erboristeria), in quanto priva di glutine, rappresenta per i celiaci un valido sostituto delle normali farine.
Quasi avevamo dimenticato l’esistenza di questo albero magnifico, dai frutti così tanto preziosi, questo sempreverde maestoso e dalla chioma espansa e fittissima. Ma nonostante queste meravigliose qualità, di carrubi da noi non sarebbe rimasto in piedi un solo esemplare senza una Legge della Regione Puglia del 2007 che ha fatto rientrare questo coltivar tra le specie protette.
Quasi l’avevamo dimenticato, il Carrubo, nei nostri tour virtuali alla ricerca di storie sempre nuove da raccontare sulle nostre torri medievali e sui nostri grandi casali diroccati. La pubblicazione di questa bellissima foto, di questo splendido e maestoso carrubo, ci ha spinto a ricordarcene e a parlarne, rammentando che questi, sono altri monumenti della natura da preservare, a tutti i costi, e non solo perché ci obbliga a farlo la legge emanata per la loro tutela, ma perché questi alberi hanno la capacità di raccontarci storie del nostro passato.
Questo pur anomalo ritorno del carrubo, comunque, allarga il cuore. Per quanto longevo e capace di raggiungere i tre secoli di vita, il carrubo non è un pino. Ha una crescita lentissima. Chi lo pianta non potrà mai ‘goderselo’. E’ evidente che chi lo mette a dimora lo fa per rispetto al paesaggio, alla storia, alla tradizione. E’ questo un gesto d’omaggio al prossimo, discendenti o no che siano. Tanto segnala un ingentilimento dello spirito che, specie in tempi di barbarie, allarga il cuore.