Mestieri Perduti: il cordaio. A Molfetta “u’ fèschlare” o “mèst’ a l’endrète”

Molfetta e il suo passato. Ricordi dell’antico mestiere legato alla cultura marinara: “il funaio”. Da un racconto di Angelo Boccanegra

Molfetta 1946 – Funai della vecchia corderia Ciannamea, in contrada Samarelli, attuale via Cap. de Candia, angolo via Ten. Marzocca. By Guy Introna

“U’ fèschlare totte le metàìne a fadgà, me ci se rombe la mesciòle, s’ gratt u’ pemmedòre…”. Era questo uno dei versi canticchiati che accompagnavano la giornata lavorativa del “funaio”, un lavoratore del passato, dedito ad un mestiere oramai scomparso. La traduzione dal vernacolo di questo verso, è pressappoco questa: “Il funaio tutte le mattine al lavoro, ma se si rompe la ruota si gratta i pomodori”. “Grattarsi i pomodori” era infatti una locuzione per dire, sostanzialmente “stare senza far nulla”, a “grattarsi”, in pratica. La ruota, “la mesciòle” (letteralmente: la girandola) era infatti un attrezzo importante per il lavoro del funaio, indispensabile, senza la quale non avrebbe potuto far nulla. Forse, quel versetto, veniva canticchiato spesso, proprio per esorcizzarne la rottura della ruota che, evidentemente, qualche volta si verificava per davvero crenando non pochi problemi al funaio.

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Da ragazzo, la mia meta preferita per le passeggiate in bicicletta (sempre riciclata e sistemata alla meno peggio) era la periferia di Molfetta, allora silenziosa e tranquilla, dove era frequente trovare questi lavoratori all’opera, i funai, in quell’epoca chiamati “fèschlare” o “mèst’ a l’endrète”. Lavoravano in viottoli e sentieri poco frequentati, seminati da cavalletti, disturbati solo dal passaggio di qualche trajàineche si recava in campagna. Alcuni li trovavi dietro lo stabilimento balneare di “don Cristallino Gallo”, altri si trovavano presso la “Secca dei Pali” e lungo il sentiero che raggiungeva il Santuario della Madonna dei Martiri o, ancora, dietro la Stazione ferroviaria.

I mastri funai lavoravano, per lo più, sempre all’aperto, non era possibile fare diversamente poiché la lunghezza delle funi era minimo di venti metri. A quel tempo poi, erano rari i locali chiusi di tale lunghezza. Lavoravano duramente dalle prime ore del mattino sino al tramonto, al freddo in inverno, o sotto il sole cocente delle giornate estive. Avevano come attrezzo di lavoro una grande ruota, in ferro o legno, a doppia faccia, di almeno un metro di diametro detta “la mesciòle”, con al centro una manovella, che era fatta girare da un ragazzo.

A quei tempi, durante le faticose e interminabili ore di lavoro, il cordaio era attorniato da tanti ragazzini che per qualche centesimo di lira o per un pezzo di pane – la povertà era davvero una cosa seria in quell’epoca – si dedicavano a “menare” la ruota, a farla girare in pratica. Essa era collegata mediante una puleggia o funi, all’aspo, supporto di legno su cui vi erano quattro o cinque rotelle munite di ganci a cui si legava il filo di spago che doveva essere filato.

Mentre la ruota girava, l’artigiano conduceva la corda camminando all’indietro fino a tutta la lunghezza della corda, tirandola e bagnandola continuamente. Da quì la definizione di “mèst’ a l’endrète” (letteralmente: “maestro all’indietro”). Il funaio legava lo spago ad una ruota del naspo, che era fatta girare dalla grande ruota, poi doveva, mentre la ruota continuamente girava, collegare spago dopo spago con la canapa che filava dai fiocchi contenuti in una sacca che gli pendeva dalla cintola. Aggiungendo canapa su canapa, il filo si ingrossava a vista d’occhio. Il trefolo che si veniva a formare era tenuto stretto nella mano dal funaio con una “pezza” di un vecchio cappello. Nasceva così l’embrione della corda, il trefolo. In rapporto all’uso erano prodotti tanti tipi di corde che erano vendute a peso.

La dura vita del funaio ha rappresentato a lungo un pilastro per il nostro sistema economico, legato principalmente al mondo della pesca. Soprattutto nel nostro borgo marinaro, il mestiere del funaio ha fatto la fortuna di molte famiglie che, fino agli anni ’60, hanno tenuto in vita questa professione cara anche alla nostra tradizione marinara. Ma, con l’avvento dell’era moderna, questa attività artigianale  si è completamente estinta.

“U’ mèst’ a l’endrète” è un mestiere scomparso del tutto, ora le funi vengono confezionate presso gli stabilimenti industriali con altri ritrovati moderni, ma vuoi mettere un lavoro, anche se duro, fatto vicino al mare o in aperta campagna? Quelle viuzze e quegli stretti sentieri periferici non esistono più e “u’ fèschlare” è diventato quasi una figura mitologica del nostra passato. Oggi, quei bellissimi campi di una volta, quegli splendidi sentieri che circondavano Molfetta, non esistono più. La “mesciòle” e “u’ mèst’ a l’endrète” non si vedono più da tempo. Ci sono solo strade, palazzi e tante, tantissime automobili.

Sono questi, ricordi di un’antica civiltà marinara e contadina, testimonianze di un passato remoto che sicuramente non era sempre rose fiori, che in pochi oramai rammentano, ma che qualcuno ricorda ancora con tanta nostalgia.

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